Il premier ungherese Viktor Orbán, un nostalgico degli anni trenta?

Vienna-Budapest, un treno per il passato

I due paesi eredi dell'impero asburgico sono stati entrambi oggetto delle sanzioni di Bruxelles. Ma mentre l'Austria non ha mai voltato le spalle all'Ue, in Ungheria c'è chi crede che non valga la pena scommettere sull’Europa.

Pubblicato il 23 Gennaio 2012 alle 15:34
AFP/ PE Sanchez / Pareeerica  | Il premier ungherese Viktor Orbán, un nostalgico degli anni trenta?

Da qualche anno esiste un collegamento ferroviario rapido e confortevole fra Vienna e Budapest. Molto più rapido di quando, 25 anni fa, ho fatto per la prima volta questo viaggio. Allora si doveva ancora oltrepassare la cortina di ferro.

Oggi Austria e Ungheria sono membri dell'Unione europea. Le loro capitali sembrano cugine riappacificate dopo un lungo litigio. L'aria del Danubio che le attraversa, i larghi viali, i palazzi neorinascimentali costruiti dai "baroni" dell'epoca industriale, il culto di Sissi l'imperatrice d'Austria che amò appassionatamente i ribelli ungheresi, tutto trasmette l'idea di un'eredità comune, quella dell'Europa centrale.

Da dove viene questa impressione persistente, andando da Vienna a Budapest, di prendere un treno verso gli anni trenta? Dalla violenza dell'antisemitismo e dall'odio politico che si manifesta in Ungheria, ma anche dal crescente distacco, per chi osserva i due paesi, fra esperienze inizialmente simili nate dai traumi della primi guerra mondiale. Come l'Ungheria, anche l'Austria aveva perso gran parte del suo territorio, distribuito ai popoli che aveva dominato prima di essere ridotta, dopo l'Anschluss del 1938, a una semplice provincia della Germania hitleriana.

Sotto gli Asburgo gli ungheresi avevano ottenuto il diritto di sottomettere i croati, gli slovacchi, i romeni e gli altri vassalli "magiarizzati" con la forza. Ma con il trattato del Trianon nel 1920 le ambizioni ungheresi erano state assai ridimensionate, e il paese non si è mai rimesso da quel colpo. All'inizio del 2010, negli uffici dell'attuale ministro degli esteri ungherese János Martonyi, spiccava una carta della Grande Ungheria con le sue frontiere precedenti al 1920.

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“L'Ungheria è la nazione più sofferente d'Europa”

Dopo il caso Waldheim – eletto presidente nel 1986 nonostante le rivelazioni sul suo passato nella Wermacht – l'Austria ha dovuto fare i conti con il proprio ruolo nella catastrofe nazista. Al contrario, l'Ungheria ha continuato a rifugiarsi in un discorso vittimistico. Il male veniva sempre dall'esterno: gli ottomani, gli Asburgo, gli ebrei, i liberali, i tedeschi, i russi, gli zingari, adesso la Commissione europea o il parlamento di Strasburgo.

"L'Ungheria è la nazione più sofferente d'Europa", scherza l'ex vicecancelliere austriaco Erhard Busek del partito del popolo Övp, uno dei pochi cristiano-democratici a essersi opposto fino alla fine all'alleanza con l'Fpö, la destra populista di Jörg Haider. È una retorica che l'Austria conosce bene avendovi spesso fatto ricorso, per esempio presentandosi a lungo come la "prima vittima del nazismo" nonostante avesse fornito al regime hitleriano un gran numero di quadri dirigenti.

Busek denuncia la "vigliaccheria" dei conservatori europei nei confronti di Orbán. Divisi fra la rabbia per gli attacchi di Budapest contro le loro imprese e una solidarietà più o meno velata, gli austriaci non osano criticare gli eccessi dell'Ungheria: sanno che cosa significa essere al centro dell'attenzione internazionale, poiché alla fine del gennaio 2000, al tempo delle "sanzioni" europee contro l'Austria, hanno vissuto un purgatorio preventivo durato più di sette mesi.

All'epoca si trattava di isolare con misure simboliche la coalizione tra il conservatore Wolfgang Schüssel e un partito erede del nazismo. La decisione era stata molto dura ed era stata accolta con enorme fastidio dalla popolazione. Ancora oggi molti austriaci sono convinti di essere stati puniti ingiustamente perché erano un paese piccolo, così come oggi molti ungheresi accusano l'"isteria" della stampa internazionale.

Il cimitero degli imperi

Tuttavia, anche nel momento più acuto della crisi, Schüssel è rimasto un convinto europeista. Nel suo ufficio campeggiava un grande quadro del pittore Max Weiler, a lungo rifiutato perché ritenuto troppo moderno. Al contrario, a Orbán piace presentarsi di fronte a una serie di bandiere ungheresi, giurare sulla Santa Corona e paragonare l'autorità di Bruxelles a una "nuova Mosca".

Per il politologo ungherese Zoltán Kiszely questo si spiega con il fatto che in Ungheria molte persone non credono che l'Unione europea resisterà alla crisi attuale. "Avevamo la monarchia degli Asburgo, ma è finita. Abbiamo appoggiato il nazismo, e anch'esso ha fatto una brutta fine. Poi è arrivata l'Unione Sovietica, ma il suo crollo ci ha sorpreso".

Gli austriaci con l'Europa hanno fatto una buona esperienza. Uno recente studio rivela che il loro paese è quello che trae i maggiori profitti economici della sua appartenenza all'Unione. Questo non impedisce però al successore del defunto Jörg Haider, Heinz-Christian Strache, di sfruttare con abilità la crisi finanziaria europea per avanzare nei sondaggi. Insomma, il rapporto fra Vienna e Budapest sembra un viaggio di andata e ritorno fra presente e passato.

Dall’Ungheria

Centomila in piazza per Orbán

Più di centomila persone hanno partecipato alla “Békemenet” (Marcia della pace) del 21 gennaio. Organizzata a Budapest da giornalisti vicini a Fidesz, il partito di Viktor Orbán, la manifestazione è stata una dimostrazione di forza a favore del governo, sempre più contestato in Europa. I manifestanti hanno esibito slogan contro l'Ue ("Non saremo una colonia!", "Ue=Urss") e a favore di Orbán (1989-2012: Viktor ti amiamo!").

Sorpreso dalla scarsa rilevanza data all'evento dalla stampa internazionale, il quotidiano conservatore Magyar Nemzet scrive che

il governo ungherese è stato il bersaglio di attacchi eccessivi, e dunque non bisogna stupirsi di questo effetto boomerang […]. L'opposizione deve rendersi conto che con le sue sole forze non è in grado di far cadere Orbán, e non c'è alcuna traccia di un cambiamento nella politica interna del paese.

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