Soprannominato “Il Cavaliere”, Silvio Berlusconi, tre volte presidente del Consiglio, simbolo e volto del capitalismo italiano – controllava il primo grande network di tv privato del paese, giornali, editoria, pubblicità, cinema – ha fatto parte del panorama politico dell’Italia per oltre trent’anni.
Durante questo periodo ha traghettato l’Italia da una crisi politica all’altra, incarnando un nuovo (e non migliore) modello di democrazia fatto di personalizzazione, marketing, power non tanto soft, conflitti di interessi e sistemi di dubbia legalità, che gli sono valsi un numero record di processi (da molti dei quali è uscito assolto).
Berlusconi ha fondato nel 1994 un partito, Forza Italia — nome perfetto anche per una squadra di calcio o una pizza — introducendo in Italia – e in Europa – il marketing politico a tutto campo dopo di lui si è aperto un varco per politici che hanno saputo giocare con immagini, parole, espressioni esagerate, battute di dubbio gusto. Berlusconi non ha inventato nulla, certamente non il populismo: ma ha avuto la faccia tosta (e la libertà del neofita) per far vedere che sì, qualunque cosa venga detta o fatta, anche se grottesca e al limite del legale, finisce per essere accettata, e, anzi, diventa popolare. Trump e Bolsonaro gli devono sicuramente qualcosa. Così come gli devono qualcosa tutti i movimenti di contestazione che cercano di (ri)dare un senso alla parola “politica”.
Come fenomeno culturale Berlusconi si è aggiunto ai classici cliché italiani “pizza, spaghetti, mandolino, mafia, mamma”: gli italiani all’estero e in patria – spesso fortemente ostili al sistema che rappresenta – sono stati perseguitati dalle uscite di dubbio gusto dalle rivelazioni sul il bunga-bunga e sulla corruzione, dal pesante ricorso alla chirurgia plastica e altre aberrazioni ormai entrate a far parte del linguaggio della politica, senza dimenticare l’innalzamento dell’omofobia e degli stereotipi di genere a stile nazionale, con un impatto sull’insieme della popolazione.












