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Le elezioni europee, testimoni della morte annunciata della democrazia ceca

Nel 1985, il dissidente anticomunista Jiří Dienstbier sognava, a partire dalla Cecoslovacchia, un'Europa unita. Se nel 2004 i cechi hanno aderito con entusiasmo all'Ue, oggi non resta nulla di quelle attese: il nazionalismo ha sostituito le speranze europee e fa temere un futuro autoritario.

Pubblicato il 11 Aprile 2024 alle 08:58
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Siamo nel cupo 1985. Quando muore il segretario generale del Partito comunista Konstantin Černenko, appena tredici mesi dopo il suo predecessore Jurij Andropov, a prendere le redini di un’Unione Sovietica che sembra ancora capace di durare per sempre è un certo Michail Gorbačëv. Negli stessi giorni, nella impareggiabilmente grigia Cecoslovacchia di Gustáv Husák, uno dei dissidenti più brillanti del gruppo Charta 77, Jiří Dienstbier, scrive un saggio affascinante e profondamente utopistico intitolato Snění o Evropě (Sognare l’Europa).

L'essenza dell’utopia di Dienstbier è la visione di un continente senza blocchi di potere, senza Patto di Varsavia, senza Nato, dove tutti i cittadini potranno godere di una vita pacifica nella "casa comune europea": i cecoslovacchi, i baltici, gli jugoslavi, mano nella mano con i tedeschi (uniti, naturalmente), i norvegesi, gli inglesi. Per quanto oggi possa sembrare strano, Dienstbier sogna che perfino i russi possano unirsi alla grande famiglia europea.

Con un colpo di scena sorprendente, meno di cinque anni dopo la pubblicazione di quel saggio Jiří Dienstbier diventa ministro degli esteri della Cecoslovacchia in seguito alla Rivoluzione di velluto del 1989.

Tra gli slogan che più spesso si leggono sugli striscioni che adornano le piazze cecoslovacche nei giorni, innocenti e ingenui, del novembre 1989, uno sembra quasi un ossimoro: “Torniamo all'Europa”. In un paese che sotto il profilo geografico è sempre stato considerato centroeuropeo, la frase può sembrare priva di senso. Eppure è importante: perché testimonia l’ambizione di realizzare l'audace utopia del libro di Dienstbier.

Anche se per veder concretizzato questo sogno ci vorranno quindici lunghi e turbolenti anni, che probabilmente produrranno più delusioni e perdite che conquiste e gioie, quando finalmente il momento arriva, nel 2004, i cechi dimostrano di essere in stragrande maggioranza favorevoli a confermare la loro vocazione e a entrare nella comunità delle nazioni europee “avanzate”. Quasi quattro elettori su cinque, tra quanti partecipano al referendum sull’ingresso nell’Ue, votano sì. Una maggioranza schiacciante, in un clima di giubilo collettivo.

Dissolvenza. Taglio.

Sono passati vent'anni. La situazione è molto diversa. La Repubblica Ceca dà l’immagine di un paese profondamente disinteressato agli affari europei, con una delle affluenze più basse del continente alle elezioni per il parlamento europeo: l’immagine di una nazione radicalmente divisa tra i difensori di un governo di centrodestra, inadeguato e in difficoltà, e i sostenitori dell’opposizione, nazionalista, populista, autoritaria e in costante crescita; quella di un paese con forse la più ricca tradizione progressista di tutto il blocco dell’est Europa, ma senza nemmeno una forza di sinistra minimamente rilevante. La Repubblica Ceca sembra un paese profondamente disilluso, con una democrazia fragile e sulla via dell’estinzione.

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