Intervista Giornalismo e democrazia

Sylvain Bourmeau: “Uno dei bias del giornalismo è l’idea che si produca obiettività mettendo a confronto due opinioni contraddittorie”

Il giornalismo, strumento fondamentale della vita democratica, è in parte responsabile della crisi in cui versano le nostre società. Siamo venuti meno al nostro dovere di raccontare e dare a cittadini e cittadine gli strumenti per capire la complessità del mondo?

Pubblicato il 9 Luglio 2024

Sylvain Bourmeau è fondatore e direttore del giornale online francese AOC ("Analyse, Opinion, Critique"), fondato nel 2018. AOC pubblica analisi, opinioni e critiche di accademici, scrittori e intellettuali, con l’idea di non rincorrere l’attualità. Bourmeau è produttore del programma radiofonico La Suite dans les idées e professore associato all'Università di Parigi 1 Panthéon-Sorbonne. Ha contribuito al lancio della rivista di scienze politiche Politix, del settimanale Les Inrockuptibles e del quotidiano Mediapart, ed è stato vice direttore di Libération tra il 2011 e il 2014.

Sylvain Bourmeau

Prima delle ultime elezioni legislative in Francia, segnate dall'avanzata del Rassemblement national (RN, estrema destra), e bloccata in parte con il secondo turno, Bourmeau ha scritto un articolo (L'inconsciente irresponsabilité du journalisme politique) nel quale analizza il rapporto del giornalismo con la propria professione e i pregiudizi che fanno parte del mestiere. 

La sua analisi è pertinente per la stampa e i giornalisti in Europa, perché la professione di giornalista, strumento fondamentale della democrazia, ha una responsabilità nelle crisi che toccano le nostre democrazie: siamo venuti meno al dovere di raccontare la realtà e spiegare la complessità del mondo? Intervista.

Lei affronta il rapporto tra il giornalismo politico, la maniera in cui è fatto, e l'ascesa dell'estrema destra.

Alla base del mio lavoro c’è una riflessione sulla pratica giornalistica in generale, non solo sul giornalismo politico, e non solo sul suo ruolo nel favorire o meno l’avanzata dell'estrema destra. Ho scelto un contesto particolare, quello delle elezioni in Francia, per mettere nero su bianco cose che osservo da tempo e che riguardano il giornalismo in generale. Il giornalismo politico mi sembra, spesso, una sorta di giornalismo "concentrato", perché tende a caricaturare alcune caratteristiche del mestiere.

La mia riflessione, generale e teorica, deriva anche dalla mia pratica professionale, e mi permette di suggerire alcuni spunti per cercare di capire perché i giornalisti, anche quelli che non sono  simpatizzanti dell'estrema destra, che non votano per l'estrema destra, contribuiscono ad aumentare i risultati dell'estrema destra e la visibilità delle sue idee nello spazio pubblico, senza nemmeno rendersene conto.

Si riferisce alla concentrazione della proprietà dei media? In Francia, impossibile non fare riferimento all'impero mediatico del miliardario Vincent Bolloré.

Ci sono teorie e una tradizione di critica dei media che insistono sulla necessità di sapere chi possiede i giornali, ritenendolo che sia un fattore determinante per capire e per poter dare delle risposte.

Il fatto che Vincent Bolloré possieda un certo numero di mezzi di informazione in Francia, così come Silvio Berlusconi ha fatto in Italia, o Rupert Murdoch nel mondo anglosassone, è un problema. Ma credo che la riflessione debba essere più ampia. Se ci limitiamo a spiegare il problema immaginando che i proprietari dei mezzi di informazione diano sistematicamente ordini alle redazioni e ai giornalisti, credo che ci neghiamo la capacità di capire come funzionano le cose. 

Se restiamo sulla questione economica, non è tanto chi detiene il capitale, quanto i modelli economici che devono essere messi in discussione, a mio avviso.

I modelli economici degli organi di comunicazione sono stati stravolti dalla rivoluzione digitale: abbiamo assistito all'emergere di tanta “gratuità”, che non è altro che un pagamento attraverso la pubblicità. Questo ha portato alla cosiddetta "corsa ai click". Per attirare click, per conquistare pubblico, i media hanno iniziato a cambiare modelli di riferimento, coprendo alcuni temi piuttosto che altri.

Lei parla di "ideologia professionale dei giornalisti". Cosa intende?

L'ideologia professionale dei giornalisti è un concetto sociologico; potremmo parlare di "cultura professionale”. Mi riferisco al fatto di mettere in atto un certo tipo di pratica professionale e di giustificarla, di riprodurla così come viene insegnata nelle scuole di giornalismo e di rafforzarla nella pratica del mestiere. Alcune di queste pratiche producono dei bias – dei preconcetti – cognitivi

Il giornalismo è un metodo particolare di conoscenza della società: è, per definizione, globale, enciclopedico. Quello che caratterizza un giornalista è la sua curiosità. Non ci sono tante forme di conoscenza che si interessano a tutto nella stessa maniera, possiamo citare la filosofia, la sociologia, la matematica, il diritto, la letteratura e l’arte in generale.

Il giornalismo, a differenza di tante altre discipline, non si fa abbastanza domande sul modo in cui produce questa conoscenza… non ha fatto molta epistemologia, diciamo, e a volte è molto ingenuo sul modo in cui produce questa conoscenza.

Lei sostiene che la pratica stessa del giornalismo produce un certo numero di preconcetti, che nel contesto attuale, tendono a favorire l'estrema destra, ma che fanno parte di un problema relativo alla professione. 

Ce ne sono diversi. Tra questi, il bias per tutto ciò che è nuovo, la notizia. Naturalmente le notizie sono al cuore del nostro mestiere. Il problema è che questa corsa alla notizie è stata accentuata, in particolare dalla rivoluzione digitale che permette di fare giornalismo in tempo reale, live.

Il “live” fa sì che le notizie si rincorrano, distruggendo quello che dovrebbe essere uno dei principi sacri del giornalismo: la capacità di offrire una gerarchia di informazioni. Oggi la gerarchia dell'informazione tende a essere distrutta in modo permanente dalla diretta, e questo ha come effetto di far saltare una sorta di gerarchia di autorevolezza nel discorso, che tende a produrre una forma di relativismo generalizzato.

Inoltre, per esempio, diamo la parola, mettendoli allo stesso livello, qualcuno che ha l'autorità di parlare, perché è il rappresentante di un'università, di un'azienda, o semplicemente qualcuno con un titolo scientifico, con una persona che ha un'opinione da cittadino o che è un consulente di comunicazione politica. 

Il bias della “novità”, rompendo una forma di organizzazione dell’informazione, giova soprattutto l'estrema destra.

Questo modo di raccontare ha contribuito a polarizzare il dibattito e a produrre rappresentazioni della realtà contrastate, che a loro volto producono l’immagine di una società fratturata.  

Dieci anni fa — ora non è più il caso —  il giornalismo, per affrontare la questione climatica organizzava dibattiti tra scienziati — che illustravano la realtà dei cambiamenti in corso — e negazionisti del riscaldamento climatico…

 I giornalisti all’epoca pensavano di fare bene il loro lavoro, di essere in questo modo “neutrali”, perché mettevano, faccia a faccia, due opinioni contraddittorie e antagoniste.

Alla base c’è l’idea che strofinando due idee opposte, come si fa con le pietre focaie, si produce la scintilla della verità. Questo principio viene insegnato nelle scuole di giornalismo: produrre obiettività mettendo a confronto due opinioni. E’ uno strano modo di produrre obiettività.

Penso che uno dei più grandi preconcetti del giornalismo è l'idea che la verità possa essere prodotta dal confronto di due opinioni contraddittorie. Basta interessarsi all’epistemologia per sapere che le cose sono più complicate di così: non ci sono due opzioni, non ce ne sono 50 e non ce ne sono 1001. 

Si tratta, a mio avviso, di un trucco retorico-geometrico che non ha senso se lo scopo è capire cosa abbiamo di fronte: per capire, è necessario prendere in considerazione molti più punti di vista. Si tratta di un principio basilare nella storia della democrazia. 

Dovremmo guardare all'approccio metodologico di altre discipline?

La sociologia, per esempio, sa bene che non è questo il modo di produrre oggettività: ci sono molti dispositivi e indagini, metodologie diverse, che cercano di produrre parti di oggettivazione, non oggettività. I sociologi sono più umili dei giornalisti quando si tratta di oggettivare la realtà.

I giornalisti hanno la sensazione che con dispositivi così elementari e caricaturali riusciranno a dire la verità delle cose. È un pregiudizio che va a vantaggio dell'estrema destra, perché è un modo per inserire nell'agenda politica argomenti che non non dovrebbero esserci. 

Può darci qualche esempio?

Prendiamo un convegno di astrofisici, per esempio: non verrà invitato qualcuno che pensa che la Terra è piatta, perché quel tipo di discorso non è ritenuto in quel contesto degno di spazio, farebbe semplicemente perdere tempo a tutti.

Eppure i giornalisti, in nome del pluralismo o della democrazia, offrono il microfono a persone che dicono cose ridicole; per analogia, come dire che la Terra è piatta.

Ad esempio, ritenere che oggi in Europa esista un enorme problema migratorio è altrettanto sciocco che dire che la Terra è piatta. Tutti i ricercatori che si occupano di migrazione concordano sul fatto che la migrazione in Europa è minima rispetto ai movimenti di popolazione sul pianeta e sono in disaccordo rispetto a come la questione viene presentata nei mezzi di informazione. Tutto questo va a vantaggio dell'estrema destra.

Lei ha parlato di una sorta di ossessione per la devianza, per le storie di cronaca. 

Nel giornalismo si guarda spesso solo a chi va al di là dei limiti. Questo permette di capire perché il tema dell'insicurezza è onnipresente nei media e in che modo le notizie diventano rappresentative dello stato di una società. 

Contrariamente a quanto ci mostrano alcuni media, il numero di minori che commettono violenze in Francia non è in aumento, il numero di omicidi nel paese tende a diminuire, come ovunque... Il fatto che i giornalisti si concentrino sulla devianza produce una rappresentazione distorta e falsata della realtà. Ci viene mostrata una società che è in condizioni molto peggiori rispetto alla realtà delle cose.

Per dirla in altri termini, ai giornalisti interessano solo i treni che deragliano e non quelli che arrivano in orario. Ma i treni che arrivano in orario sono molto più numerosi di quelli che deragliano. E così, trovandoci costantemente di fronte a rappresentazioni ansiogene, perché enfatizzano i problemi (di cui non nego l'esistenza), queste rappresentazioni mediatiche hanno evidenti effetti sulla politica, che ancora una volta avvantaggiano i partiti che sfruttano questi eventi, che sfruttano l'insicurezza per prosperare.

Ma in fondo, è compito del giornalismo produrre verità?

Non so cosa sia la verità. Penso che il compito del giornalismo sia quello di descrivere il mondo, sapendo che descrivendolo e, soprattutto, pubblicando  queste descrizioni, interagiamo con il mondo.

In altre parole, attraverso un circuito, lo facciamo esistere in qualche misura, anche attraverso le nostre descrizioni. Quindi l'importante è moltiplicare le descrizioni. Da questo punto di vista, mi inserisco in una tradizione pragmatista e pluralista, quella del filosofo americano John Dewey: dobbiamo avere a disposizione il maggior numero possibile di descrizioni se vogliamo arrivare democraticamente a quella che, nella scuola di Chicago, veniva chiamata "definizione della situazione". Ovviamente, questa definizione della situazione è sempre conflittuale. Ma è questo il senso della democrazia.

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