Intervista Usa-Europa

Cas Mudde: “L’interpretazione della libertà di espressione riflette le dinamiche di potere”

La libertà di parola, un diritto fondamentale, è concepita in modo diverso tra Europa e Stati Uniti. In occasione delle elezioni americane,il politologo olandese Cas Mudde, professore universitario negli Stati Uniti, spiega le origini e le conseguenze, sociali e politiche, di visioni talvolta contrastanti.

Pubblicato il 31 Ottobre 2024
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Cas Mudde (1967) è un politologo olandese esperto di estrema destra. Mudde è professore alla School of Public and International Affairs dell’Università della Georgia, negli Stati Uniti, e professore al Center for Research on Extremism dell’Università di Oslo. È l’autore tra l’altro di On Extremism and Democracy in Europe e di The Populist Radical Right: A Reader.

Voxeurop: Quali sono le principali differenze nel concetto di libertà di parola tra Europa e Stati Uniti?

Cas Mudde: Innanzitutto, il concetto di “libertà di parola” è al centro di un crescente dibattito politico e l'estrema destra, e non solo, contribuisce in maniera significativa ad accrescere i fraintendimenti che ne conseguono. 

La libertà di parola riguarda il rapporto tra cittadini e stato, in particolare tra potere statale e diritti individuali. Secondo questo presupposto lo stato non dovrebbe impedire ai cittadini di esprimersi liberamente. Il principio non prende in considerazione le interazioni tra cittadini, o tra cittadini e istituzioni private. 

In altre parole, se un privato cittadino o un'organizzazione limita la libertà di parola nel proprio ambito privato, non è un problema relativo al principio di libertà di parola. Non invitare qualcuno a tenere un discorso di laurea all'università o non pubblicare un articolo su un giornale non è un problema di libertà di parola: poiché in questi casi non è la libertà di parola a essere limitata, ma sono gli spazi in cui si possono esternare le proprie opinioni a essere ristretti. In altre parole, non esiste un diritto fondamentale secondo il quale una determinata persona ha un diritto garantito di  pubblicare un op-Ed sul New York Times o di essere chiamata a fare un discorso all’Università di Harvard. 

In linea di principio, la violazione della libertà di parola sussiste quando è lo stato a imbavagliare i cittadini, vale a dire quando non consente loro di accedere a spazi legali per manifestare il proprio pensiero. 

La differenza tra Europa e Stati Uniti non sta tanto nel concetto di libertà di espressione, quanto piuttosto nel modo in cui questo viene interpretato. Secondo la visione idealizzata che gli Stati Uniti propugnano, il diritto di libertà di parola è assoluto; per cui chi lo esercita non dovrebbe subire restrizioni in base al contenuto del discorso che tiene. L’unica eccezione risiede nelle conseguenze che il messaggio da comunicare può avere in determinati contesti. Un esempio tipico è quello di urlare “al fuoco” in un cinema affollato, che di per sé non è vietato, ma farlo in un cinema gremito di gente (quando non ci sono incendi), lo è. La ragione è che il contenuto di questa esclamazione è falso e potrebbe sortire effetti negativi. 

D’altra parte, non sono proibite neanche azioni come camminare in uniforme nazista in un quartiere a maggioranza ebraica, nonostante siano offensive; presumibilmente perché  il contenuto del messaggio in questione è autentico (cioè esprime una convinzione reale) e non comporta danni fisici. 

L’Europa, invece, ha sempre posto dei limiti alla libertà di parola, in relazione al contenuto del discorso. Per esempio, per un lungo periodo, la critica nei confronti della Chiesa e della Monarchia è stata espressamente proibita; in realtà, in alcuni paesi europei esistono tutt’oggi leggi di questo tipo. Dopo la Seconda guerra mondiale, molte forme di odio e

discriminazione come l'antisemitismo sono state vietate, e molti paesi hanno anche limitato il sostegno al Comunismo, attraverso leggi ufficiali e restrizioni informali.

È interessante notare che spesso per negare la limitazione alla libertà di parola si ricorra a stratagemmi retorici, quali “il razzismo è un crimine, non è un’opinione”; infatti molte leggi in Europa non vietano soltanto gli atti razzisti, ma anche opinioni di questo tipo. C’è da considerare che sebbene ci siano modelli teorici fondati sulla libertà di espressione assoluta come quello statunitense, o che promuovano una “democrazia militante”, come quello tedesco, che vieta qualsiasi posizione antidemocratica, nella realtà la situazione è ben più complicata. Negli Stati Uniti sostenere il terrorismo è vietato, tuttavia la legge viene applicata in modi differenti a seconda del tipo di terrorismo, come nel caso di quello jihadista o di quello anti-aborto. Anche in Germania e nella maggior parte dei paesi occidentali sono in vigore leggi che vietano la discriminazione in base all’etnia e alla religione; ciònonostante, l’islamofobia spesso non viene punita.

Quali sono le origini e le cause di queste differenze?

In Europa e negli Stati Uniti le origini intellettuali della libertà di parola coincidono. Entrambi i contesti la ritengono un valore fondamentale della democrazia e del liberalismo, ma come indicato precedentemente la differenza sta nell’interpretazione di tale concetto. Credo che questa discrepanza abbia molto a che vedere con il rapporto tra cittadini e stato, che tra Europa e Stati Uniti cambia notevolmente. 

Negli Usa, la cultura politica è caratterizzata da una profonda diffidenza verso lo stato (federale). A parte rare eccezioni (per esempio durante il New Deal), in linea di massima il governo è sempre stato considerato un potenziale oppressore, il cui abuso di potere sarebbe senz’altro sfociato in tirannia. Questo è il motivo per cui in molti giustificano il diritto di detenere e portare armi, garantito dal Secondo emendamento, ossia per proteggere sé stessi e il popolo da un’eventuale tirannia (federale). Il forte senso di populismo che ha sempre caratterizzato la cultura americana riconosce “il popolo” come moralmente superiore e puro rispetto “alle élite” (in particolare a quella politica federale).

Al contrario, soprattutto in Europa occidentale c’è sempre stata una certa sfiducia nei confronti del “popolo”, sfiducia che si è manifestata attraverso una lenta e cauta espansione del diritto di voto e della partecipazione politica, ed è stata rafforzata da quello che io definisco il “mito di Weimar”, ovvero l’idea che il popolo tedesco abbia portato Hitler al potere democraticamente. 

In realtà, la sua ascesa fu favorita da una coalizione con le élite conservatrici tedesche, perché il suo partito, il Partito nazionalista tedesco dei lavoratiri (Nsdap), ottenne “solo” un terzo dei voti. Il mito di Weimar ha intensificato la diffidenza nei confronti del popolo da parte delle classi dirigenti, specialmente in Germania (occidentale) dove questo sentimento si è rivelato con la creazione della “democrazia militante”, una sorta di democrazia guidata: i cittadini sono liberi di votare, ma possono scegliere solo tra le opzioni approvate dai vertici politici. Questo significa che in Germania i partiti “antidemocratici” sono esclusi. La questione centrale è: non possiamo essere certi che il popolo tedesco non elegga un nuovo Hitler, allora togliamogli direttamente l’opportunità di farlo. Questa forma “paternalistica” di democrazia è stata fondamentale per la politica dell'Europa occidentale nel Ventesimo secolo, ma oggi subisce pressioni a causa di relazioni più orizzontali nelle società, rafforzate dalle idee centrali del neoliberismo e del populismo, che vedono i cittadini - “clienti razionali” o “persone pure” - come superiori ai politici “irrazionali/inefficienti” o “corrotti”.

Quali sono le conseguenze politiche?

Non è facile separare le conseguenze dirette della libertà di parola perché queste riflettono in larga misura una cultura politica più ampia. Ad esempio, in generale negli Stati Uniti i pregiudizi vengono espressi più apertamente, anche se forme di discriminazione come i dog whistles (messaggi in sottotesto riferiti ad una comunità o un gruppo in particolare) e la colour-blindness (daltonismo razziale) erano la norma anche prima che Donald Trump salisse al potere. 

Ovviamente, anche in Europa si tende a esternare opinioni offensive, sia in modo velato che manifesto, ma comunque non in maniera estrema e palese come avviene negli Stati Uniti, per il timore di essere arrestati e condannati. Oltretutto, in Europa è ancora in corso il dibattito sui limiti della libertà di parola che, come si può vedere, continuano a cambiare. 


Viviamo in società fondamentalmente diseguali, in cui la voce di alcuni cittadini ha un peso maggiore rispetto a quella di altri; questo avviene a causa di alcuni privilegi legati alla classe, al genere, alla razza e al virtuosismo retorico


Dopo la Seconda guerra mondiale, in molti paesi si è sviluppata una certa sensibilità verso l’antisemitismo, che tuttavia non si è estesa nei confronti del razzismo o dell'omofobia. La situazione è cambiata negli anni Ottanta e Novanta, quando l’espressione di molti pregiudizi è diventata reato con l’introduzione di nuove leggi contro la discriminazione. L’opposizione a queste misure, benché sia sempre esistita, si è accentuata e potenziata dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, che hanno portato a una generale diffusione dell'islamofobia nella maggior parte dei paesi europei. 

In sostanza, quindi, l’interpretazione legale della libertà di espressione riflette le dinamiche di potere di un preciso periodo storico… Chi detiene il potere garantirà la propria libertà di parola.

Chi trae maggiori vantaggi dalla libertà di parola tra Europa e Stati Uniti? La libertà di parola ha un'utilità sociale?

Di base, credo che tutti traggano vantaggio dalla libertà di parola, poiché la possibilità di esprimere le proprie convinzioni è cruciale per essere cittadini e in definitiva, contribuisce al pluralismo e alla democrazia liberale. In una democrazia i leader devono rappresentare le opinioni e la volontà dei cittadini, e per farlo la libertà di espressione è fondamentale. Inoltre, è utile anche al pluralismo dato che facilita la comprensione dei valori dei diversi gruppi sociali. Lo stesso vale per le relazioni interpersonali, dove una comunicazione aperta è vantaggiosa, mentre i segreti tendono ad indebolire i rapporti. 

Detto questo, è bene sottolineare che società e relazioni funzionano diversamente, perché le società sono molto più complesse e le relazioni al loro interno decisamente più indirette e distanti.

Qual è il sistema più vantaggioso per i cittadini e la società nel suo complesso?

Non per evitare di rispondere a questa domanda, ma dipende da quali valori si privilegiano in una società. A mio avviso, in una società ideale, la libertà di parola non causa traumi personali e non sfocia in violenza politica. Dunque, in linea puramente teorica, la libertà di parola rappresenterebbe il massimo beneficio sia per i cittadini che per la società. Tuttavia, funziona davvero solo in una democrazia “perfetta”, dove i cittadini hanno lo stesso potere politico, e di conseguenza accesso alla stessa audience. Purtroppo questa situazione ideale non esiste.


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Viviamo in società fondamentalmente diseguali, in cui la voce di alcuni cittadini ha un peso maggiore rispetto a quella di altri; questo avviene a causa di alcuni privilegi legati alla classe, al genere, alla razza e al virtuosismo retorico, tutti fattori che concorrono a influenzare l’accesso ai media. Ma il nocciolo della questione è capire se la risposta al problema debba essere la riduzione della libertà di espressione o della disuguaglianza stessa. Spesso scegliamo la prima perché la seconda è molto più difficile da realizzare.

Avrebbe senso parlare di “equità nella libertà  di parola”, e nel caso come sarebbe?

“Fair speech”, una “Equa libertà di parola”... mi piace, ma presuppone una definizione oggettiva del significato di “equa”, che non esiste. L'equità è fortemente basata su presupposti ideologici (e religiosi) di ciò che è giusto o sbagliato. Di conseguenza, la “libertà di parola equa” rappresenterebbe, nella migliore delle ipotesi, l'interpretazione dominante di “equità” in uno specifico momento storico. Di base, questo concetto si avvicina molto alla libertà di parola come la intendiamo oggi, ovvero l’interpretazione dominante di “libertà di parola” in questo periodo. 

Un altro concetto a cui si fa spesso riferimento nei dibattiti su questo argomento è quello di “rispetto”, che prevede che si possa dire la propria ma pur sempre in maniera “rispettosa”; il che presuppone in modo implicito o esplicito, che qualunque pensiero “non rispettoso” sia vietato. Ma chi è a stabilire cosa sia “rispettoso” o meno? A dire il vero, sono le élite politiche a decidere cosa significhi “rispetto” e a usare questo concetto per interdire quelle opinioni (e azioni) che minacciano il loro potere.

La libertà di espressione crea un campo equo per tutti o favorisce uno squilibrio nella partecipazione politica e sociale, avvantaggiando le minoranze meglio finanziate o con connessioni più solide?

Come la maggior parte delle libertà fondamentali, la libertà di parola si propone di dare a tutti l’accesso paritario, ma ciò non implica che metta in discussione le relazioni di potere esistenti. Tuttavia, le opposizioni politiche possono utilizzare la libertà di parola per contestare le élite e persino per rovesciarle. Allo stesso modo, le leadership politiche possono fare altrettanto per consolidare o addirittura estendere il loro potere. 

Inoltre, data la loro maggiore influenza, sia formale che informale, possono servirsene in maniera più efficace. Nonostante ciò, senza la possibilità di esporsi senza riserve, mettere in discussione le classi dirigenti è ancora più difficile. 

In conclusione, ritengo che la libertà di parola sia indispensabile per una buona rappresentanza, visto che permette ai cittadini di far sentire la propria voce e di influenzare le decisioni dei leader politici. In sostanza, per rispondere alla domanda iniziale, la libertà di espressione non garantisce né l'una né l'altra cosa e per far sì che funzioni nel modo più democratico possibile, abbiamo bisogno di una società molto egualitaria.

In molti, per esempio Elon Musk, si fanno promotori di una libertà di espressione illimitata, ma quando sono loro stessi a subire direttamente conseguenze indesiderate, come l’istigazione all’odio o alla violenza, allora chiedono restrizioni. Come spiega questo atteggiamento?

A essere onesti, questo atteggiamento non è esclusivo dell'estrema destra. Sono anni che sono a favore della libertà di parola e ho notato che molte persone che dichiarano di pensarla allo stesso modo, poi pretendono che certe forme di espressione siano vietate. Mi riferisco a conservatori, liberali, socialisti e all'estrema destra in generale. Penso che la maggior parte delle persone, soprattutto gli “intellettuali”, perori la causa della libertà di parola per poter esporre il proprio giudizio senza restrizioni. 

Molti di coloro che difendono questo ideale a gran voce godono anche di tanti privilegi, il che significa che raramente ne subiscono le conseguenze negative; non vengono attaccati direttamente. E se invece vengono presi di mira, o considerano che ciò che ne deriva sia inopportuno e pericoloso, allora esigono censure o quantomeno limitazioni. Allo stesso tempo però, non vogliono che tali misure ricadano anche su loro stessi. Concludo aggiungendo che penso che la libertà di parola sia diventata un valore condiviso, come l’onestà, il duro lavoro e la tolleranza. È diventata parte dell’immagine positiva che le persone hanno di sé stesse. Come si può essere buoni democratici se non si sostiene la libertà di parola?

Qual è il ruolo dei media rispetto alla libertà di parola? E il rapporto con l'etica professionale?

Abbiamo detto che la libertà di parola riguarda il rapporto tra cittadini e stato. Quindi, al massimo si può parlare del ruolo dei media pubblici. Quelli privati, che rappresentano la maggior parte dei media tradizionali, sono liberi di scegliere che messaggi trasmettere e quali no. Sono sconcertato dal fatto che soprattutto i media liberali sentano la necessità o addirittura l'obbligo di dare spazio all'estrema destra, nonostante ribadiscano di sostenere la democrazia e riconoscano che questa rappresenta una minaccia per i valori democratici. Oltretutto, la maggior parte di questi dibattiti sulla “libertà di parola” sono molto problematici. 

Per esempio, alcuni media asseriscono che sarebbe opportuno intervistare i politici di estrema destra o pubblicare i loro op-Ed perché i cittadini dovrebbero conoscere le loro opinioni, dato che fanno parte del dibattito politico. Certo, i cittadini dovrebbero conoscerle, ma dato che gli stessi media considerano l'estrema destra una minaccia ai valori fondamentali che difendono (democrazia liberale, libertà di stampa) e spesso ritengono che vari attori dell'estrema destra agiscano in malafede (cioè che mentano), esistono valide ragioni per non prendere l'estrema destra molto seriamente. 

Quindi, invece di darle una piattaforma e farla comunicare direttamente con l’utenza, scrivetene, analizzatene le idee e verificatene le affermazioni. Per di più, la maggior parte dei media è ipocrita: danno spazio ad attori e idee dell’estrema destra “popolare” con la scusa di voler dar voce a “tutti”, ma poi escludono jihadisti, cristiani ortodossi, neonazisti, ecc. 

Eppure, anche queste idee esistono nella società. Ma questo ci riporta al problema iniziale della limitazione della libertà di parola... dove si trova il limite tra ciò che può e non può essere detto? È una questione che sarà sempre di natura politica e che rifletterà sempre gli equilibri di potere.

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