Lobby: la legge dei più numerosi

I gruppi di pressione sono una vera e propria schiera intorno alle istituzioni dell’Ue. Qual è il loro ruolo? Vincono sempre? Groene Amsterdammer si dedica ad analizzare i rapporti di forza. La seconda parte dell’inchiesta sui miti europei.

Pubblicato il 24 Luglio 2012

La questione non è tanto sapere se Bruxelles ospita numerosi lobbisti, perché - molto semplicemente - già sappiamo che è così. La maggior parte degli esperti concorda sul fatto che a Bruxelles siano al lavoro dai 15mila ai 20mila lobbisti. Un bel numero davvero.

Eppure si sente spesso la stessa reazione: all’Aja (sede del governo olandese) ce ne sono altrettanti, solo che restano nell’ombra, sono meno visibili. A Bruxelles, invece, si danno un gran da fare senza nemmeno nascondersi. Lobbisti e gruppi di interesse sono invitati a partecipare alle discussioni sulle leggi in una fase precoce in qualità di esperti. I disegni di legge, quindi, sono resi noti in tempi brevi e sottomessi all’approvazione di tutti. Tale iter ha di che far preoccupare, ma presenta anche alcuni vantaggi.

La Commissione europea non può essere allo stesso tempo una piccola struttura efficace e fare ogni cosa da sé. In altri termini, conoscere il settore e i convenuti esterni è indispensabile. Senza contare che la Commissione europea si garantisce così un solido appoggio, una chiamata generale alle armi. La partecipazione dei diversi gruppi di interesse è dunque positiva. Così la pensano i suoi sostenitori.

Ci si può tuttavia chiedere se le regole del gioco sono uguali per tutti e se questi gruppi diversi sono nella posizione di godere di un medesimo trattamento: una piccola organizzazione senza risorse può esercitare la medesima influenza di un’industria importante con molti mezzi? Assolutamente no, secondo i detrattori delle lobby. “Otto volte su dieci ha la meglio chi ha più fortuna” afferma Erik Wesselius, dell’Osservatorio europeo delle imprese. “Esistono moltissimi esempi di rapporti che a forza di essere emendati non valgono più niente e ai quali gli autori finiscono col rinunciare”. Tra gli esempi riportati, Wesselius cita una proposta di legge per etichettare i prodotti alimentari con simboli: verde per quelli che fanno bene alla salute, rosso per quelli nocivi. Pur trattandosi di una idea facile e chiara per i consumatori, non è stata approvata. “E soltanto a causa della forte resistenza dell’industria agro-alimentare”, spiega Erik Wesselius.

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In alcuni settori l’assenza di equilibrio è palese. “Citigroup ha 40 persone dislocate a Bruxelles”, fa notare l’ex lobbista Pim van Ballekom, mentre il settore della finanza conta pochissimi “agenti” per fare da contrappeso. Altrettanto avviene nell’ambito della grande distribuzione, della logistica o nel settore agro-alimentare: i rapporti di forza sono sbilanciati. Invece, in altri campi come l’ambiente e i diritti dell’uomo, le ong sono rappresentate molto bene. Quanto a internet, i piccoli gruppi di attivisti sono molto efficaci, lo si è potuto constatare di recente con il trattato contro la pirateria [Acta], quando le grandi industrie (cinema e musica) si sono ritrovate a mordere la polvere.

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Perché gli eco-investitori si ritrovano a finanziare le “Big Oil”? A quali stratagemmi ricorre la finanza per raggiungere questo obiettivo? Come possono proteggersi i cittadini? Quale ruolo può svolgere la stampa? Ne abbiamo discusso con i nostri esperti Stefano Valentino e Giorgio Michalopoulos, che per Voxeurop analizzano i retroscena della finanza verde.

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