A quando una “operazione mani pulite”?

Con la crisi economica, l’opinione pubblica ceca tollera sempre meno la corruzione. Se l’élite politica continuerà a essere incapace di riformarsi, rischierà di finire come la sua omologa italiana degli anni Novanta. E questo avrebbe effetti esplosivi sulla società.

Pubblicato il 30 Agosto 2012 alle 13:37

La Repubblica Ceca non è ancora nella situazione in cui venne a trovarsi l’Italia negli anni 1992-1993, quando i partiti politici dell’establishment furono messi alla gogna. Buona parte di essi ancora oggi non si è più ripresa dal fango dal quale fu sommersa. Analogo cataclisma politico potrebbe verificarsi molto presto nella Repubblica Ceca.

Il numero sempre maggiore di casi di clientelismo dimostra che la corruzione, il trasferimento illecito dei fondi e i conflitti di interesse non sono fenomeni casuali e sporadici, ma al contrario sono alquanto diffusi e strutturalmente radicati nel paese.

Con gli effetti della crisi economica e finanziaria, la soglia della tolleranza dell’opinione pubblica si è abbassata, tanto nei confronti dei casi di corruzione vera e propria, quanto della reticenza o dell’incapacità dei responsabili politici e dei funzionari della pubblica amministrazione ad affrontare e risolvere efficacemente il problema.

La corruzione e le diverse forme con le quali le risorse pubbliche sono letteralmente depredate non sono soltanto immorali, ma rappresentano anche un autentico problema di natura politico-economica: sempre più spesso infatti sono considerate altrettanti fattori aggravanti, che contribuiscono in modo consistente alla “crisi del debito”, tenuto conto che intaccano progressivamente la competitività delle economie e ne mettono a rischio lo sviluppo.

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In questo contesto diventa più probabile che mettendo sul tavolo la questione della responsabilità delle élite politiche per ciò che concerne la loro partecipazione diretta alla corruzione (per esempio tramite il finanziamento illegale dei partiti), la posizione che assumono nei confronti della corruzione che in ogni caso tollerano, incoraggiano o difendono, si possa arrivare a una dichiarata crisi politica all’italiana.

Naturalmente, la prima domanda che occorre porsi è la seguente: nella crisi morale e politica che l’Italia ha attraversato – in particolare nella sua fase acuta ed esplosiva del biennio 1992 e 1993 – che cosa è stato maggiormente scandaloso e rivelatore da un punto di vista politico? Dire che furono le rivelazioni sulle pratiche di corruzione enormemente diffuse - il risultato più importante della crociata anticorruzione entrata nella storia con il nome di “operazione mani pulite” o “rivoluzione delle toghe” - non è una risposta soddisfacente.

In quel caso non si trattava infatti di una corruzione qualsiasi, ma di una corruzione difesa, coperta dalla classe politica, che aveva quasi il beneplacito dei “pilastri della democrazia” (ma si potrebbe utilizzare altrettanto efficacemente l’espressione “pilastri dell’oligarchia demagogica”), vale a dire dei principali partiti politici. All’origine di queste rivelazioni ci furono istituzioni attive a livello di procedura penale, sostenute nella loro crociata anti-corruzione da un’alleanza informale di diverse iniziative di cittadini e di giornalisti specializzati in inchieste.

La giustizia rivestì un ruolo chiave: nessuno al di fuori della giustizia aveva i mezzi per mettere con le spalle al muro i politici e gli uomini d’affari corrotti, e rendere pubbliche queste rivelazioni, scandalose per loro stessa natura. I partiti politici dell’establishment che avevano il controllo del potere legislativo e di quello esecutivo furono incapaci di impegnarsi dall’interno in una riforma accettabile. Il rinnovamento della cosa pubblica assunse quindi la forma di una “rivoluzione delle toghe” che, quanto meno agli inizi, fu accolta con grande entusiasmo dai mezzi di comunicazione di massa e dall’opinione pubblica.

È stato dimostrato che una crociata anticorruzione nello stile dell’operazione mani pulite non poteva spazzar via il patrocinio politico della corruzione contando sui suoi soli mezzi, senza disporre di alleati affidabili collocati in posizioni abbastanza solide nell’ambito di strutture di potere legislative ed esecutive. Questo problema resta, in ultima istanza, per lo più politico, ed esige soluzioni che in primis sono di natura politica e non giuridica. In altri termini, esige soluzioni che nascano da un dibattito politico.

La “rivoluzione delle toghe” non è riuscita a portare a soluzioni di questo tipo. Soltanto una “rivoluzione della classe politica” ne ha il potere, ma con responsabili lungimiranti, capaci di pensare a lungo termine e che si prendono a cuore l’interesse pubblico. Non che entrano a far parte quanto prima possibile di una coalizione ufficiosa di privilegiati.

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