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Cittadini senza nazione né diritti: cosa significa essere apolidi in Europa

L’Unione europea conta almeno 381mila individui senza nazionalità, di questi 3.002 sono in Italia. Si tratta di persone escluse dai diritti fondamentali.

Pubblicato il 1 Agosto 2024

Immaginate di non poter firmare un contratto di lavoro, o di non poter accedere ai servizi sociali o sanitari. Scordatevi di viaggiare, iscrivervi all’università o sposarvi. Questa è la realtà a cui sono sottoposte centinaia di migliaia di persone riconosciute come cittadini di… nessuno stato. “Non hanno diritti” afferma Nina Murray, dello European Network on Statelessness (ENS, Rete europea sull'apolidia ), una rete fondata nel Regno Unito e che riunisce organizzazioni della società civile con sede a Londra. 

Murray spiega che la maggior parte degli apolidi proviene da stati che ormai non esistono più. Oppure sono stati costretti ad abbandonare il loro paese a causa di guerre o per altre ragioni. Alcuni, invece, non possiedono nazionalità per effetto di lacune legislative dei loro paesi di nascita: possono essere figli di apolidi o di persone i cui paesi di residenza non riconoscono i loro discendenti perché nati da cittadini all’estero.

Ci sono casi in cui gli apolidi sono tali in quanto lo stato di residenza non riconosce il loro paese d’origine come stato; ciò vale in gran parte dell’Unione europea (Ue) per coloro che provengono dalla Palestina o dal Sahara occidentale, per esempio. 

Nel 2014, l’UNHCR (l’agenzia Onu per i rifugiati) ha avviato un piano d’azione per porre fine all’apolidia entro il 2024. Malgrado ciò, a metà 2023 le cifre dell’agenzia riguardanti gli apolidi non erano minimamente vicine all’obiettivo: nella sola Ue, le persone senza nazionalità erano circa 381 mila. La stessa UNHCR è consapevole che i dati ottenuti dai governi nazionali e dalle ong sono parziali, e che la cifra reale è ben più alta. E sono proprio gli invisibili, coloro esclusi dalle statistiche ufficiali, che vivono le difficoltà più gravi.

A partire dagli anni Cinquanta, sono state ratificate due convenzioni Onu volte a garantire i diritti minimi agli apolidi. La prima, risalente al 1954, è la Convenzione sullo statuto degli apolidi che identifica le persone senza nazionalità ed esige che i paesi firmatari concedano i medesimi diritti basilari di cui godono gli stranieri regolarmente residenti. La seconda è la Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 1961, la quale si occupa dei requisiti di cui devono disporre gli apolidi per ottenere la nazionalità. 

Tuttavia, stando all’ultima relazione sull’apolidia stilata dalla Rete europea sulle Migrazioni (Emn), un’organizzazione intergovernativa finanziata dall’Ue, Francia, Grecia e Slovenia non hanno ancora ratificato il documento del 1961, mentre Cipro, Estonia e Polonia non hanno neanche riconosciuto il trattato del 1954. 

Primo passo: essere riconosciuti come apolidi

Benché la convenzione Onu per l’identificazione e i diritti umani degli apolidi risalga al 1954, l’UNHCR ha cominciato a rilevare dati sulla loro condizione solo mezzo secolo dopo, a partire dal 2004. In quell’anno, si contavano 625.600 apolidi in appena 13 paesi Ue. Di questi, più di 602.700 erano residenti in Lettonia ed Estonia, ma possedevano uno status diverso: erano “non cittadini”, in maggior parte provenienti dall’ex Unione Sovietica, a cui erano riconosciuti certi diritti, tra cui avere un passaporto. 

Attualmente, la distribuzione degli apolidi identificati è diversificata: Lettonia ed Estonia sono i paesi che continuano ad ospitarne la maggior parte, quasi 255.700 sui 381 mila totali rilevati dall’UNHCR nel 2023, anche se la cifra è in diminuzione. Parallelamente, in altri paesi il numero di apolidi è aumentato: la Svezia è passata dai 5.300 del 2005, il primo anno in cui si disponeva dei dati, a 40.400. Invece, in Danimarca nel 2005 gli apolidi erano 446, mentre nel 2023 erano 11.400. 

Tuttavia, sebbene la convenzione del 1954 imponga agli stati di riconoscere gli apolidi e garantire loro i diritti essenziali, non delinea i meccanismi per attuare quanto scritto. “In molte nazioni manca una procedura per accertare chi sia apolide; perciò risulta complesso identificare chi può godere di tali diritti,” precisa Murray. 

Secondo il rapporto 2023 dell’EMN, 8 dei 27 paesi membri dell’Ue, Bulgaria, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria, Italia, Lettonia, Lussemburgo e Spagna, hanno sviluppato delle procedure atte a determinare lo status di apolide e concedere alcuni diritti essenziali. Eppure, in termini pratici, tale procedura porta a un vicolo cieco.

A metà del 2023, secondo i dati dell’UNHCR, gli apolidi identificati e residenti in Italia sarebbero 3.002, il triplo rispetto a vent’anni fa. Nel paese, le persone senza nazionalità possono acquisire lo status di apolide tramite due percorsi: amministrativo e giudiziario. Il primo è vincolato alla residenza legale del richiedente e, secondo Murray, ciò “costituisce un chiaro problema per la maggior parte degli apolidi nel contesto migratorio”.Invece in Spagna, affidandosi sempre ai dati dell’UNHCR, ad oggi sono presenti 8.524 apolidi contro i soli 14 del 2004.

La maggior parte di essi, in conformità con i report sull’asilo del ministero dell'interno, discendono dai Sahrawi. Nella penisola iberica, i candidati allo status di apolide possono fare richiesta alla Oficina de Asilo y Refugio (OAR), all’ufficio per stranieri o presso una stazione di polizia entro un mese dal loro arrivo in Spagna, specificando le motivazioni della loro apolidia e fornendo anche delle prove cartacee. “Il principale ostacolo rimane accedere agli uffici per l’asilo, dal momento che non è possibile prenotare un appuntamento, e poi risolvere i singoli casi richiede molto tempo”, precisa Sidi Talebbuia, avvocato di origine Sahrawi che lavora per Tax & Legem a Madrid.

Talebbuia aggiunge che di prassi l’amministrazione spagnola impiega uno o due anni per risolvere le richieste di chi non possiede una nazionalità. Però, diversamente dai richiedenti asilo, gli apolidi, mentre attendono sviluppi, non godono di alcun diritto. “In tanti entrano in un limbo legale”, afferma. “Vivere in tale condizione implica, ad esempio, a seconda della zona in cui si vive, lavorare in nero, non poter accedere ai servizi sociali, non disporre di una tessera sanitaria e, benché tu possa restare nel paese, una volta che esci non puoi rientrare,” avvisa Talebbuia. 

L’avvocato si batte da tempo affinché la Spagna riconosca la Repubblica democratica araba dei Sahrawi, così come ha fatto con la Palestina. Secondo il Center for Studies on Western Sahara (CESO) dell’Università di Santiago de Compostela, tale repubblica è attualmente riconosciuta da 47 paesi. “Formalizzare il loro riconoscimento comporta il godimento di ulteriori diritti, tra cui viaggiare muniti del proprio passaporto e non essere obbligati a dipendere da un terzo stato,” specifica Talebbuia. L’avvocato possiede un passaporto sahrawi che utilizzò nel 2015 per entrare in Spagna. “Ma poi la Spagna ha smesso di riconoscerlo,” dice. 

Ci sono altre 15 nazioni europee che non dispongono di procedure specifiche per il riconoscimento dell’apolidia, sebbene siano percorribili altre strade ben più tortuose. Svezia e Germania sono tra questi, nonostante siano i due stati Ue, dopo Lettonia ed Estonia, in cui vengono riconosciuti la maggior parte degli apolidi.

Murray spiega che in Germania per ottenere lo status di apolide bisogna affrontare un iter burocratico labirintico. L’UNHCR stima che coloro senza nazionalità si aggirano attorno alle 30 mila unità; il Destatis, l’ufficio federale di statistica del paese, ha segnalato che nel 2022 gli apolidi erano 29.455, e la metà di essi proveniva dalla Siria. A questo dato, l’ente statistico aggiunge altre 97.150 persone aventi una nazionalità non definita che l’UNHCR non include nei suoi rilevamenti. “Vediamo persone che, ad esempio, richiedono asilo e, dopo un arco di tempo, lo stato tedesco tenta di deportarli ma senza successo, perché non sanno in quale paese mandarli. È solo al termine di questa procedura che potrebbero essere riconosciuti come apolidi e beneficiare di qualche diritto,” conclude Murray. 

Abdul Raheem Younis, un apolide siriano che vive in Germania da nove anni, racconta: “Mentre eravamo in Siria, dicevamo che una volta arrivati in Germania avremmo finalmente avuto dei diritti; ma la realtà ha disatteso le aspettative”. Younis è privo di nazionalità perché è nato da madre siriana e padre apolide, e la legge siriana vieta alle madri di tramandare la loro nazionalità ai figli. 

Inoltre, non rientra tra i circa 30mila apolidi identificati in Germania, tantomeno nelle più di 97 mila persone con nazionalità indefinita. Sul suo permesso di soggiorno risulta siriano, ma la Siria non gli fornisce alcun documento. “Le autorità tedesche ci trattano come se avessimo la cittadinanza siriana e ci chiedono di fornire i documenti necessari, ma gli apolidi siriani non possiedono nulla se non un pezzo di carta firmato dal capo del villaggio locale di provenienza in cui si attesta il nome, il cognome e l’indirizzo; in Siria non abbiamo diritti civili,” riassume Younis.

Secondo passo: concedere una nazionalità agli apolidi

La Convenzione Onu sulla riduzione dell’apolidia del 1961 prevede azioni mirate per facilitare l’attribuzione della nazionalità. Venti stati europei l’hanno firmata. L’ultima nazione in ordine di tempo è stata la Spagna, nel 2018. Tuttavia, il Globalcit, l’osservatorio globale sulla cittadinanza, attesta che solo 18 paesi hanno concretamente facilitato le procedure di riconoscimento della nazionalità agli apolidi. 

In alcuni di essi la differenza è sostanziale, come in Irlanda, dove il governo ha adottato un metodo discrezionale per garantire la nazionalità senza che gli apolidi abbiano vissuto nel paese per un determinato periodo. O in Belgio, dove l’arco temporale di residenza è stato abbassato da 5 a 2 anni. Negli altri stati, il cambiamento è minimo, come in Germania, dove si richiedono 6 anni di residenza invece che otto; ma con la legge entrata in vigore a giugno, gli apolidi dovranno dimostrare di aver vissuto in Germania per cinque anni, come richiesto agli altri residenti stranieri. 

In altri nove paesi membri Ue, tra cui Spagna, Portogallo e Romania, non è prevista alcuna procedura facilitata di richiesta della nazionalità.

Nel 2022, secondo gli ultimi dati Eurostat, i 27 paesi Ue hanno concesso la nazionalità a un totale di 7.296 apolidi. Dal 2013, il primo anno di cui sono disponibili i dati, ci sono stati solo 67.600 riconoscimenti, più della metà avvenuti in Svezia.

Nati nel paese: apolidi o cittadini?  

Tutti gli stati europei, fatta eccezione per Cipro e Romania, attribuiscono la nazionalità a tutti coloro nati nel territorio e che altrimenti risulterebbero apolidi. Tuttavia, la naturalizzazione di queste persone varia da paese a paese, e solo 12 di essi garantiscono la nazionalità automaticamente e senza imporre altre prerogative. Tra questi vi sono Spagna, Francia e Italia. 

Rosario Porras, avvocato che collabora con In Género, un’organizzazione civile che offre assistenza legale a lavoratori e lavoratirici del sesso, afferma: “A volte incontro donne che si apprestano a partorire e spiego loro che, coerentemente con la legge nazionale, il nascituro non avrà alcuna nazionalità, ma che lo stato spagnolo lo riconoscerà come tale per ridurre l’apolidia.”

“Ciò non significa che vengono in Spagna, partoriscono e si risolve tutto, come potrebbero pensare certe persone. Ci sono procedure da seguire,” aggiunge. In questi casi particolari, lo stato spagnolo avvia una procedura nel registro civile per la dichiarazione di nazionalità per presunzione e solo dopo la madre potrebbe ottenere un permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare.

Perla, una cliente di Porras che offre la propria testimonianza, si è trasferita in Spagna nel 2006 ottenendo la residenza legale. Malgrado ciò, il Paraguay, il paese da cui è andata via, non riconosce la cittadinanza ai figli dei propri cittadini nati all’estero. Di conseguenza Perla, quando ha dato alla luce sua figlia nel 2016, per evitare che risultasse apolide, ha dovuto registrarla presso l’anagrafe di Valdepeñas, la città in cui vive, con nazionalità spagnola per presunzione.

Lo stato spagnolo ha poi richiesto a Perla di presentare un certificato firmato dall’amministrazione paraguaiana per attestare che sua figlia non fosse registrata come cittadina del paese sudamericano. Sei mesi dopo, la Spagna ha confermato che la bambina aveva la nazionalità spagnola. Ora, specifica Porras, il periodo di attesa è diminuito a due settimane.

Gli altri stati che sulla carta garantiscono la nazionalità ai bambini nati in loco non portano sempre a compimento tale processo. Nell’agosto 2023, l’ufficio immigrazione del Belgio, che opera sotto l’autorità del ministero dell’interno, ha richiesto ai comuni di sospendere la nazionalità dei bambini nati da genitori palestinesi sulla base del fatto che coloro provenienti dalla Palestina si avvalessero impropriamente della legge sul ricongiungimento familiare naturalizzando i propri figli. 

Altri stati prevedono ulteriori condizioni per la richiesta di nazionalità per gli apolidi nati nel paese in cui vivono. Ad esempio, in Germania, prima di avanzare la richiesta, bisogna dimostrare di avere la residenza legale nel paese da almeno cinque anni; ciò potrebbe portare a un groviglio burocratico. Destatis stima che gli apolidi nati in Germania nel 2022 sono stati 4.860. Per contro, in Austria la richiesta non può essere fatta fino a che l’interessato non abbia compiuto 18 anni o abbia la residenza legale nel paese da almeno dieci anni. 

“La Convenzione Onu sulla riduzione dell’apolidia del 1961 non prevede alcun requisito: il fatto che i bambini siano nati apolidi è sufficiente a garantire loro una nazionalità,” sostiene Murray. 

In collaborazione con European Data Journalism Network

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