Apologia disperata dell’Europa

Con il progetto europeo il vecchio contente ha ritrovato la prosperità, ma ha anche perso una parte della sua anima. Non è ancora troppo tardi per salvare i nostri valori. Ma bisogna fare in fretta.  

Pubblicato il 20 Dicembre 2011 alle 09:51

Oltre alla scarsa lungimiranza dei leader politici, uno degli aspetti più deprimenti della crisi dell'Europa è l'indifferenza dei cittadini davanti al susseguirsi degli eventi. Gli europei sembrano preoccupati unicamente di come la crisi economica e sociale possa influire sulle loro vite private. Per loro l'Europa non è niente di più che una moneta in pericolo. In molti si chiedono quali sarebbero le conseguenze dello scioglimento dell'euro, ma nessuno sembra temere la fine del sogno europeo, la vera catastrofe che minaccia tutti noi e che bisogna scongiurare a ogni costo.

La sindrome della nave che affonda sta già colpendo l'Europa, e la paura risveglia i nazionalismi più beceri. La stampa sensazionalistica si fa portavoce del malcontento, con accuse sempre più gravi e pericolose. L'aspetto più preoccupante è che i cittadini, per contagio o per iniziativa propria, cominciano già ad aggredirsi a vicenda. L'origine della deriva attuale va ricercata nella povertà di spirito che caratterizza il progetto europeo fin dagli anni 50. Naturalmente non tutto è da buttare, e l'Europa ha ottenuto alcuni successi di rilievo come la soppressione delle frontiere e la creazione di una moneta unica. Tuttavia il progetto manca ancora dell'audacia e della creatività necessarie a concepire una visione davvero entusiasmante.

Dal punto di vista economico, l'Europa ha ritrovato la prosperità dopo la Seconda guerra mondiale, ma culturalmente è ancora una potenza sconfitta, e nel corso dei decenni ha smarrito l'egemonia di cui ha goduto per secoli. L'Europa dopo la pioggia di Max Ernst offre un ritratto puntuale della disfatta europea. Con il passare degli anni il vecchio continente si è ripreso materialmente, ma non spiritualmente. Il paesaggio desolato dipinto da Ernst ha assunto un nuovo significato nel corso dei 50 anni della guerra fredda e del dominio statunitense, durante i quali gli europei si sono affossati in una deculturalizzazione progressiva che ha fatto perdere loro ogni forma di identità.

Il progetto europeo ha sempre fatto appello più allo stomaco che alla coscienza. All'inizio dell'avventura c'erano ancora grandi statisti, ma quando questi ultimi hanno cominciato a scarseggiare la fragilità culturale dell'Europa è diventata sempre più evidente. I progressi nella comunicazione e negli scambi commerciali non hanno apportato alcun contributo al consolidamento dell'Europa unita. Gli europei hanno cominciato a viaggiare da un estremo all'altro del continente, e gli studenti hanno approfittato dei programmi di interscambio tra le diverse università.

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Ma questo dinamismo, paradossalmente, non ha posto le basi di un'architettura solida attorno a un sentimento di unità. In America e in Asia ci hanno sempre chiamati "europei", ma noi non ci siamo mai considerati tali, nonostante il progressivo rafforzamento delle istituzioni di Bruxelles e Strasburgo. Abbiamo un passato comune, ma il nostro presente è nebuloso e l'avvenire incerto.

A sancire il fallimento è stata la Costituzione europea. Il testo che doveva segnare la nuova rinascita dell'Europa – dopo l'impero romano e quello carolingio – si è di fatto trasformato nell'ennesimo prodotto di una burocrazia incapace di suscitare l'entusiasmo degli europei. La Costituzione europea si è rivelata un documento sterile, che non ha saputo includere il patrimonio spirituale e morale del continente e che non è in grado di stimolare la partecipazione attiva dei cittadini.

Il fallimento definitivo del progetto europeo sarebbe una notizia terribile per il mondo intero. Ma l'Europa è ancora in tempo. Può ancora dimostrare il suo valore a sé stessa e agli altri. Come cittadino europeo mi sarebbe piaciuto che la costituzione, in un radicale esercizio di autocritica, avesse riconosciuto il nostro passato colonialista e sfruttatore. Era inoltre un'occasione per ricordare al mondo il contributo dell'umanesimo e dell'illuminismo – genuinamente europei – alla storia del pensiero libero e della democrazia collettiva.

Non è ancora troppo tardi. Nell'occhio del ciclone della presunta "crisi mondiale", l'Europa ha una sola via da percorrere: spostare il suo centro di gravità e sostituire gli onnipresenti mercati con la democrazia. Una volta portato a termine questo processo fondamentalmente culturale, il vecchio continente potrà ritrovare la sua forza e anche una parte dell'amor proprio perduto. In caso contrario, invece, la dissoluzione definitiva del progetto europeo lascerà campo libero alle soluzioni totalitarie, che godono della reputazione (storicamente priva di fondamento) di antidoti efficaci in tempi di crisi. Per alcuni – Putin, il Partito comunista cinese, gli sceicchi arabi – la libertà è soltanto un ostacolo all'affermazione dei mercati.

L'Europa deve assolutamente evitare di appiattirsi su questo tipo di posizioni. Come patria della democrazia, il suo futuro dipende dalla volontà di far sempre prevalere la libertà sugli interessi economici e sulle leggi che la speculazione impone ai cittadini di tutto il mondo, compresi gli europei: sonnecchianti, pusillanimi ed egoisti.

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