Un antiquario di Budapest. Foto Mackz/Flickr.

Campioni di pessimismo

Una recente inchiesta ha rivelato che gli ungheresi sono tra i popoli più pessimisti per quanto riguarda il futuro. Dai perdenti della transizione postcomunista agli ideologi, il sociologo Elemér Hankiss traccia il profilo di questa depressione collettiva.  

Pubblicato il 12 Ottobre 2009 alle 14:31
Un antiquario di Budapest. Foto Mackz/Flickr.

Un sondaggio Gallup WorldPoll ha chiesto a un campione rappresentativo di 120 paesi cosa pensasse del futuro. Il risultato per l’Ungheria è scoraggiante: è al 117° posto, col 34,2 per cento della popolazione adulta che giudica la situazione disperata o quasi. Solo gli abitanti dello Zimbabwe sono più pessimisti (40,3 per cento). Quali sono le cause di questo stato d'animo? E quali gruppi costituiscono questo 34 per cento? Cerchiamo di definirli.

Gli ungheresi disfattisti, quelli che non riescono a disfarsi della loro mentalità est-europea. L’istruzione nazionale e i media contribuisconovolta a questo clima pessimista.

I perdenti del 1989. I disoccupati, quelli che vivono con una piccola pensione o con i sussidi, quelli che crescono molti figli con un basso reddito, quelli che vivono alla giornata e non riescono a credere che un cambiamento politico, qualunque esso sia, possa dare loro delle opportunità, anche se modeste. È necessario che la situazione economica cambi radicalmente per spingere queste centinaia di migliaia di persone a credere nel loro futuro.

Le vittime dello tsunami economico. La nostra economia è in rovina, la vita di centinaia di migliaia di famiglie è in pericolo, gli uomini politici sono impotenti e disonesti. Molti hanno perso la fiducia nel futuro. La ripresa economica, una vita pubblica più trasparente e lo sviluppo della pace sociale potrebbero rafforzare l’immagine che queste persone hanno del futuro.

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Gli ottusi, chi aveva bisogno di una grande ideologia per credere nel futuro. Queste persone si aggrappano alle rovine di questa ideologia e guardano spaventati il disordine intorno a loro.

I loro parenti più stretti, quelli che portano i paraocchi a destra e a sinistra. Chi dice che il potere attuale ha svenduto il paese e chi, invece, dice che l’ordine democratico sarà distrutto con le prossime elezioni [e il possibile ritorno della destra]. Priva di consensi, la società ungherese sarà sempre propensa alla paura o al catastrofismo.

I fanatici del progresso, quelli che i piccoli e i grandi pensatori avevano addormentato, facendo credere loro che la storia dell’umanità era una marcia trionfale in avanti. E una volta venuta meno questa fede, non hanno saputo più a chi fare riferimento.

I delusi dell’Ue, che negli anni settanta e ottanta si erano immaginati che tutti i problemi si sarebbero risolti una volta che l’Ungheria fosse entrata a far parte del mondo occidentale. Ma così non è stato e adesso questa gente è amareggiata, come un bambino deluso dai suoi genitori.

I cosmopoliti, che di ritorno da Vienna, Parigi o Londra, rimangono – giustamente – sbigottiti di fronte alla situazione nel paese. In effetti lo spettacolo è terribile. Ma pensiamo a un certo conte Széchenyi (1791-1860), che tornò da Londra e Vienna con i progetti del Ponte delle catene.

I paranoici, che tremano perché a) finché il partito avverso è al potere tutto è perduto, o b) la vittoria dell’opposizione porterà il paese alla catastrofe. In altre parole, tutte quelle persone che non hanno fiducia nella forza della democrazia e nella prassi democratica in Ungheria. Solo il consolidamento delle istituzioni democratiche potrà rincuorarli.

I seguaci di Socrate, o le anime sensibili. Per loro si preannunciano tempi duri. Sarà più facile risanare l'economia e la politica che la morale pubblica.

Le persone stanche, che hanno sopportato per venti anni e non hanno più la forza di credere in un cambiamento positivo.

I pigri, per i quali il degrado del paese e la disperazione sono pretesti per non fare nulla e lamentarsi. Queste persone avranno difficoltà a rinunciare al piacere dell’indolenza.

I cinici, contenti di constatare che i fatti danno loro ragione: in questo mondo difficile – o quanto meno nel loro paese – non c’è nulla di puro, di sacro e di onesto. Non si può né si deve cambiare nulla.

Mi fermo qui, perché si può anche pensare che se la gente vede nero è perché ha i suoi buoni motivi. Certo che si può. Ma pensandoci bene, è proprio vero che siamo nella stessa situazione dello Zimbabwe, del Burundi o del Togo, dove bisogna lottare ogni giorno per la sopravvivenza? Questa epidemia di pessimismo contribuirà a peggiorare le cose – per noi e per il paese. Avremmo grande bisogno di un po’ più di fiducia: in noi, negli altri e nel mondo. Aremmo bisogno di un nuovo slancio, di qualcuno che ci dica “yes, we can”.

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