La chiamano “piccola Vienna” per via degli eleganti palazzi del centro storico, gioiello architettonico dell’intera regione della Bucovina, assieme a Lviv (Leopoli), importante polo culturale e artistico dell’Ucraina occidentale. Černivci negli ultimi vent’anni è stata, per gli italiani, "la città delle badanti" perché da qui proviene gran parte delle assistenti familiari presenti in Italia: da quattro mesi, invece, è "la città degli sfollati", primo centro di accoglienza interno di un popolo in fuga.
Se ne contano oltre 60 mila (dati aggiornati a maggio), tutti profughi di guerra arrivati dall’oblast di Mykolayiv, colpita ripetutamente, senza tregua dall’esercito russo sin dalla fase iniziale del conflitto, da Kherson, Dnipro, Zaporižžja e ancora Mariupol. "Fanno parte della classe sociale più povera", spiega un volontario dell’ong Adra, "persone che al momento dell’invasione non hanno avuto la possibilità né i mezzi economici per scappare, uscire dai confini del paese".
Černivci, rifugio sicuro "nell’attesa che tutto questo finisca"
Ai lati delle strade spiccano cartelli che incitano alla resistenza "in nome della Patria e di Dio", gigantografie gialloblu con slogan e frasi tratte dalla Bibbia, ma anche inviti, neppure troppo velati, di “mandare al diavolo” i russi. Una resistenza apparentemente mite, silenziosa ma tenace, quella degli ucraini dell’Ovest, pronti a reagire e ad accogliere.

Tamara ha settantacinque anni, le sopracciglia sottili disegnate con cura su una pelle di porcellana e una frangia di capelli ricci, biondi lasciata scoperta da un copricapo rosso: arriva da Mykolayiv, "una città molto bella vicino a Odessa", tiene a precisare orgogliosa delle proprie origini.
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"Non ci tornerò più", aggiunge poco dopo portandosi le mani al volto, ancora provata nel raccontare lo spavento per i bombardamenti improvvisi e la decisione, altrettanto improvvisa, di lasciare tutto: la casa, il figlio del quale al momento non ha notizie, gli amici di una vita.
Tatiana invece di figli ne ha cinque ed è al nono mese di gravidanza: "È maschio”, sorride, indicando la pancia, “si chiamerà Damian". Si esprime in un ottimo italiano, a tratti quasi senza accento: "L’ho imparato a Milano, ho lavorato lì due anni come badante", spiega.

Ogni settimana assieme ad altri tre connazionali sale su un pulmino bianco diretto alla frontiera: quaranta chilometri, un’ora e poco più di viaggio verso la dogana di Siret, punto di transito dei profughi diretti in Romania e principale centro di smistamento di tonnellate di aiuti umanitari destinati agli sfollati interni.
"In questo piazzale viene raccolta una parte del materiale proveniente dall’Italia", spiega Andrej Avram, responsabile di un orfanotrofio della zona e braccio destro di padre Sylvestre che, con entusiasmo travolgente, coordina l’arrivo delle donazioni per conto del monastero ortodosso di Bogdana. "Riceviamo pacchi di generi alimentari ma anche coperte, abbigliamento, passeggini e altro materiale di prima necessità per i neonati", aggiunge.

A Černivci alcuni sacerdoti hanno preso in affitto una palestra: "lì arriverà una parte di queste donazioni che verrà poi destinata alle famiglie più in difficoltà ma anche ad alcune famiglie di Odessa, grazie a un accordo tra chiese locali", conclude Avram, consapevole dell’importanza del funzionamento e dell’efficienza di questo triangolo solidale.
"Ora ad esempio ci stanno chiedendo dei generatori perché mancano luce ed energia elettrica": si tratta di una rete ben strutturata che coinvolge tutta la comunità, dai singoli cittadini agli enti e istituzioni locali, e collega Černivci a Radauti e Suceava, primo vero snodo verso l’Europa occidentale. Nella sala d’attesa della stazione ferroviaria, Ina aspetta il treno delle 13 e 30 per Bucarest: seduta accanto a lei, la figlia Nastia di sette anni.
"Veniamo da Kiev”, racconta, “ci è voluta una settimana per riuscire ad arrivare fino a qui". Lavorava per la televisione, il marito nel settore dell’IT, "prima di essere chiamato a servire nell’esercito", spiega. "Non volevo partire ma lui mi ha costretta a scappare… sa, per la bambina".
Dagli altoparlanti, una voce annuncia l’arrivo del treno. È tempo di proseguire il viaggio, "Amsterdam e poi in Ecuador, raggiungiamo mia madre e mia sorella". Appiccicati al vetro della porta d’ingresso rimangono solo i disegni dei bambini. La bandiera dell’Ucraina, due carri armati coi cannoni rivolti gli uni verso gli altri, un cuore e una colomba. "мир", “pace”.
I binari si riempiono in fretta: nel frattempo sono arrivati altri profughi dalla frontiera, scortati da mezzi dei vigili del fuoco. Dei volontari chiedono se hanno bisogno di aiuto, qualche parola di cortesia, un augurio di buona fortuna. "Grazie. Noi ucraini però vorremmo tornare nelle nostre case… vogliamo indietro le nostre vite".
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