All’inizio degli anni Settanta Nuuk, la capitale più a Nord del mondo, contava poco più di 7mila abitanti. Oggi sono quasi 20mila, un terzo della popolazione totale della Groenlandia. I “non groenlandesi” nello stesso lasso di tempo sono passati solo da duemila a quattromila.
La maggior parte dei nuovi abitanti di Nuuk sono infatti Inuit – i nativi dell’isola dell’Artico, ancora oggi suo principale gruppo etnico – che sono stati forzatamente trasferiti dai villaggi alla città. Il processo è stato imposto a partire dagli anni Cinquanta dal Regno di Danimarca. Lo scopo era duplice: rendere più “danesi” gli Inuit e imporre una trasformazione dell’economia dalla sussistenza all’industria.
Quella dei danesi in Groenlandia è stata una colonizzazione politica e industriale. È cominciata ufficialmente nel 1721, con la missione di un prete sostenuto dalla Chiesa e dalla Corona danese. Da allora i legami con Copenhagen non si sono mai interrotti, a parte una breve parentesi durante l’occupazione nazista della Danimarca, alla quale è scampata la Groenlandia.
Gli Inuit che abitano l’isola dell’Artico hanno cominciato a chiedere maggiore libertà dagli anni Sessanta, nel 1979 hanno costituito il loro Parlamento, dando l’avvio al periodo “post-coloniale”, e nel 2009 hanno ottenuto le basi per il riconoscimento di una piena indipendenza, per esempio attraverso la gestione autonoma delle proprie risorse naturali.
Al momento però l’isola resta ancora un territorio sotto l’amministrazione della Corona danese.
Anche per via di questi trascorsi storici alle elezioni del 2021 ha vinto il partito indipendentista di sinistra Inuit Ataqatigiit con un programma che vuole la piena indipendenza dalla Danimarca e un controllo stringente delle licenze estrattive concesse alle società straniere.
I politici groenlandesi sono sicuri di essere in grado di difendere le loro risorse dagli appetiti di Cina, Russia, Stati Uniti ed Unione europea, i nuovi potenziali colonizzatori, e di riuscire al contempo a guadagnare maggiore autonomia da Copenhagen.
Quello che però non sono riusciti tutelare in questi ultimi sessant’anni è la propria identità culturale, sempre più a rischio estinzione.
Spopolare i villaggi
Dopo la Seconda Guerra mondiale, la Danimarca decise che era giunto il momento di sviluppare l’economia locale della Groenlandia. La grande isola ghiacciata offriva opportunità per la pesca commerciale, in particolare per i gamberetti e l’halibut, un grosso pesce piatto pescato dagli Inuit facendo calare una lenza con centinaia di ami attraverso un buco nel ghiaccio.
La Danimarca introdusse imprese commerciali che facevano la stessa operazione su scala industriale e aggiunse flotte di pescherecci che diedero il via a un processo di profonda trasformazione non solo dell’economia locale, ma anche dello stile di vita degli abitanti dei villaggi tradizionali.
Quelli che un tempo erano cacciatori e pescatori cominciarono a cercare lavoro come operai nei nuovi stabilimenti per la lavorazione del pesce nei centri abitati più grossi, dove si cercava manodopera.
Il governo danese giustificò la scomparsa dalla cartina geografica di diversi centri abitati sostenendo che mantenere ovunque servizi come scuole e cliniche fosse troppo difficile e dispendioso e sarebbe stato più semplice se gli Inuit si fossero trasferiti nelle città più grandi, dove anche le infrastrutture esistevano già.
Molte famiglie indigene si ritrovarono così a vivere in grandi palazzi di cemento a Nuuk, costruiti appositamente per accogliere chi veniva trasferito dai piccoli insediamenti, abbandonando completamente il proprio stile di vita legato alle tradizioni e alla natura.
A Nuuk si sono già perse alcune tradizioni Inuit, come la pesca praticata forando il ghiaccio.
Al porto della città si possono vedere sia i grossi pescherecci della Royal Greenland – la più grande azienda di pesca della Groenlandia, controllata dall’Ufficio di presidenza del governo groenlandese – sia le piccole imbarcazioni dei pescatori locali. Il bottino di queste ultime è almeno in parte venduto ai banchi del mercato della carne e del pesce dal quale acquistano solo altri Inuit.
I cacciatori, invece, continuano a catturare le loro prede una a una, avventurandosi sulle montagne che coprono l’intera isola artica.
Andarsene o tornare
L’industrializzazione della pesca ha generato da un lato benefici economici sia in Groenlandia sia in Danimarca, dall’altro ha limitato le possibilità per le piccole imprese e per i pescatori locali di partecipare attivamente al mercato, riducendo l’autonomia economica delle comunità e creando nuove difficoltà sociali.
Narsaq, agglomerato di meno di 1.500 anime poggiato su un fiordo a più di 450 chilometri a sud della capitale Nuuk, è stata una delle principali vittime di questo processo. Qui, dopo cinquant’anni dall’apertura, la Royal Greenland ha chiuso gli stabilimenti di lavorazione del pesce, condannando il villaggio a un drammatico declino economico e sociale.
L’impianto di lavorazione dei gamberetti, aperto negli anni Settanta nell’ambito del piano di sviluppo danese per l’industria del pesce in Groenlandia, ha garantito per diversi decenni crescita economica e lavoro stabile a gran parte della popolazione.
Tuttavia, nel 2010, i problemi legati alle risorse ittiche – dovuti al fatto che i gamberetti pescati erano sempre meno a causa dello spostamento della specie verso nord per via del cambiamento climatico – e i conseguenti costi di gestione sempre più elevati, hanno portato alla chiusura dell’impianto, lasciando senza lavoro più di 100 persone (quasi il 10 per cento della popolazione), molti dei quali capifamiglia.
Molte famiglie sono state così costrette ad abbandonare l’insediamento nel sud della Groenlandia in cerca di nuove opportunità nella capitale. Dal 2010 Narsaq ha perso il 20 per cento della popolazione e subisce il più alto tasso di disoccupazione della Groenlandia.
Ole Møller è l’elettricista di Narsaq. Ha lasciato la capitale Nuuk per tornare nel suo villaggio natale. La sua è una scelta politica: “Io e mia moglie abbiamo nomi danesi e siamo nati negli anni in cui essere danese era considerato meglio che essere groenlandese”, afferma. Per le figlie – Qupanuk e Iluna, un anno e mezzo e nove mesi – voleva una situazione diversa.
In contrasto con la predominanza del danese e dell’inglese nelle scuole di Nuuk, ha deciso di insegnare loro prima di tutto il groenlandese: “La nostra paura è che la lingua groenlandese si perda, insieme con le nostre tradizioni”, spiega mentre si barcamena tra la cucina e il dare attenzioni alle due bambine.
Tornare in una zona così remota implica che fare qualunque cosa sia più difficile del dovuto.
“Con l’isolamento, anche le necessità più semplici richiedono mesi di attesa: dalle medicine alla vernice per finire di dipingere le mura di casa, devi aspettare svariati mesi”, racconta guardando la facciata della sua casa, metà fucsia e metà rossa, “l’inverno sta arrivando e ho finito la vernice, finirò di dipingerla la prossima estate”.
Un vecchio pescatore che un tempo lavorava come fornitore della Royal Greenland trascorre ormai le sue serate all’Inugssuk Cafe, uno dei pochi pub di Narsaq.
Si presenta come Christian ed è incuriosito dalla presenza di stranieri nel suo villaggio. Parlando, finisce per aprirsi anche su questioni personali.
“Il tasso di suicidi in Groenlandia è così alto che non è eccessivo affermare che tutti hanno almeno un conoscente che si è tolto la vita”, dice. Poi mostra le foto dei suoi nipoti e racconta che anche sua figlia, la madre dei due bambini, si è tolta la vita.
Mentre parla si commuove e bacia il telefono, come se non riuscisse a trattenere il moto di affetto verso i due nipoti rimasti senza madre. La donna aveva trent’anni e apparteneva a quella generazione che continua a chiedersi se possa esistere un futuro tra i fiordi di casa.
Gli Inuit delle generazioni più giovani vivono una fase di transizione: da un lato desiderano preservare la tradizione della caccia dei nonni, e spesso anche i loro genitori, radicata nel profondo legame con la natura e con la loro terra; dall’altro, sono confusi e disorientati dalle aspettative di una vita urbana.
Si sentono privi di un’identità, distanti sia dalle generazioni precedenti sia dai coetanei del mondo globalizzato. I più colpiti, oggi, sono le persone tra i 20 e i 24 anni.
Come accaduto anche ad altre popolazioni autoctone costrette a cambiare radicalmente il proprio stile di vita, la perdita di identità è cominciata con lo sradicamento ordinato per legge dai danesi.
Insieme ai luoghi dove vivere, i danesi hanno imposto agli Inuit la propria lingua, religione, sistema educativo, li hanno costretti ad abbandonare i propri villaggi per trasferirsi in città, scoraggiando l’uso delle tradizioni e della lingua locale, il kalaallisut, nel tentativo di trasformarli in cittadini danesi.
Con gli anni Settanta, in Groenlandia aumentano i suicidi: dal 1970 al 1989 il tasso è aumentato da 28,7 a 120,5 ogni centomila persone. Oggi, il tasso è lentamente diminuito, ma rimane uno dei più alti al mondo: circa 81 ogni centomila persone.
Se il ghiaccio scompare
Tukumminnguaq Lyberth è nata a Qaanaaq, la città più settentrionale della Groenlandia. Chiamano questo luogo Thule, il nome dell’isola immaginaria che secondo i cronisti dell’antichità segnava i confini del mondo.
Come molte trentenni Inuit, Lyberth si è trasferita a Nuuk per lavorare. Da poco fa parte di Oceans North, l’associazione che si occupa di preservare i diritti degli Inuit soprattutto per quanto riguarda la pesca e la salvaguardia dell’ambiente marino.
Ripensando alla sua infanzia, Lyberth ricorda le enormi battute di caccia condotte dagli uomini del suo villaggio sulla banchisa, lo strato di ghiaccio galleggiante che ricopre il mare.
“La banchisa era alta così”, dice alzando il braccio sopra la sua testa, con lo sguardo che torna con un sorriso in un luogo lontano, custodito nella memoria, era alta più di un essere umano, per questo eravamo tranquilli quando la solcavamo per andare a caccia”.
La situazione oggi è diversa: negli ultimi vent’anni, la caccia e la pesca sono diventate sempre più difficili per gli abitanti di Qaanaaq, tra i pochi che le provano a praticare seguendo ancora i metodi tradizionali.
Colpa dei ghiacci che si sciolgono.
Nel Nord dell’isola, infatti, i cacciatori e i pescatori Inuit per trovare le loro prede continuano a muoversi sui ghiacci per chilometri, fino al punto adatto dove praticare un buco dal quale pescare e cacciare gli animali marini.
“Il ghiaccio per noi è tutto”, racconta, è qualcosa che per voi è difficile da capire. Ma noi ricaviamo dal ghiaccio tutto ciò di cui abbiamo bisogno”. “Questa relazione profonda”, prosegue, “ci ha permesso di sviluppare una cultura e uno stile di vita in stretta armonia con la natura, sfruttando al meglio le risorse che abbiamo a disposizione”.
Il problema è che un tempo il mare ghiacciava a settembre, quando la luce domina ancora le lunghe giornate, e quindi i cacciatori potevano uscire con le slitte in cerca di foche per fare scorta in vista del lungo inverno.
Oggi ghiaccia molto più in là, verso fine ottobre se non addirittura novembre, quando il buio ormai diventa padrone della giornata. Inoltre la banchisa rimane molto più sottile, a rischio crollo. Il risultato è che cacciare e pescare è sempre più pericoloso: “Conosco diversi cacciatori che hanno abbandonato l’attività perché non sono in grado di nutrire i loro cani e la caccia non garantisce più entrate sufficienti per pagare le bollette. La cultura della caccia è a rischio”, sostiene Lyberth.
Vedere i ghiacci che si sciolgono è come vedere i granelli di sabbia di una clessidra che stanno per terminare: “Se scompare il ghiaccio, anche noi prima o poi spariremo da questi luoghi”, conclude, sicura.
👉 L'articolo originale su IrpiMedia
🤝 Questo articolo nel quadro del progetto collaborativo Come Together
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