Un manifesto precrisi di fronte a una fabbrica abbandonata a Ballyfermot, Dublino (Rothar)

Debito e castigo

Per l'Irlanda, colpita duramente dalla crisi finanziaria, i tempi della Tigre celtica sono ormai un ricordo. Ma invece che risanare i bilanci, i tagli massicci del governo potrebbero causare un vero collasso economico e sociale, avverte Rob Brown.

Pubblicato il 18 Gennaio 2010 alle 15:52
Un manifesto precrisi di fronte a una fabbrica abbandonata a Ballyfermot, Dublino (Rothar)

Un tempo modello di globalizzazione del libero mercato per tutto il mondo, dall’Ungheria all’Honduras, oggi l’Irlanda sta facendo entrare in vigore drastici tagli al settore pubblico e al welfare più di qualsiasi altro governo dell’Unione. Le ristrettezze che gli attoniti cittadini devono affrontare sono tali che perfino Brian Lenihan – il principale responsabile del nuovo corso – ha ammesso ufficialmente che gli altri europei sono “meravigliati dalla nostra capacità di incassare colpi”. Il ministro delle finanze, quasi vantandosi, ha poi aggiunto: “In Francia scoppierebbero disordini, se si cercasse di fare altrettanto”. Dall’inizio della crisi nel 2008,

Dublino ha già approvato tre budget “restrittivi e incisivi” che si calcola abbiano interessato circa il 5 per cento del prodotto interno lordo nazionale. Una simile riduzione delle spese, che aggrava piuttosto che alleviare il rapido dissolvimento del settore privato, potrebbe arrivare a interessare un impressionante 15 per cento dell’economia irlandese, provocando la più significativa contrazione sperimentata in tempo di pace da una una nazione avanzata. Il tasso di disoccupazione è ormai fisso al 12,5 per cento e il numero di coloro che attingono ai sussidi (compresi i lavoratori part-time) supera ormai di molto i 400mila abitanti, su una popolazione complessiva di 4,5 milioni. È possibile che si tocchi il mezzo milione prima della fine della crisi, e se non fosse per gli irlandesi disposti a emigrare alla ricerca di un lavoro in qualche altro paese insieme agli immigrati che se ne vanno, il loro numero sarebbe ancora più elevato.

L’emigrazione di massa si sta rivelando ancora oggi una valvola di sicurezza nei confronti dei tumulti sociali, come è stato per tutta la storia dell’Irlanda. Al momento si pensa che saranno almeno due le generazioni di irlandesi destinate a pagare per le follie delle elite, le cui frodi hanno riempito l’Irlanda di banche-zombie rispetto a cui altre banche fallite sembrano in salute. La caduta della sola Anglo Irish Bank potrebbe inghiottire oltre 30 miliardi di euro di fondi pubblici, corrispondenti al totale degli utili dello scacchiere irlandese nell’intero anno scorso. Morgan Kelly, professore di economia all’University College Dublin, prevede che “il prossimo atto della tragedia economica irlandese vedrà una valanga di insolvenze e mancati pagamenti dei mutui ipotecari, provocati dalla disoccupazione e dal crollo del prezzo delle case.

Come dire che le nostre banche, che già non valgono niente, rischieranno di nuovo la bancarotta”. Il debole governo pare più preoccupato dalla possibilità che gli investitori internazionali abbassino il rating del credito del loro paese. Decisi a tenere distinta la posizione dell’Irlanda da quella della Grecia – i cui sprechi minacciano di destabilizzare l’intera zona euro – hanno deciso che un taglio del 20 per cento nelle spese statali entro i prossimi quattro anni dovrebbe bastare per rispettare la clausola del mantenimento del deficit entro il 3 per cento del Pil. Nessuno a Dublino dubita che se non fosse per l'euro oggi l’Irlanda sarebbe in acque ancora peggiori, come l’Islanda.

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L'isola che non c'era

Il sistema politico irlandese è stato per lungo tempo tribale, locale e clientelare; durante gli anni in cui la Tigre ruggiva, i ricconi si sono accaparrati la loro bella fetta di soldi, ma il coddetto “crony capitalism”, il capitalismo clientelare e “degli amici” (un’economia capitalista che si regge sugli stretti rapporti che intercorrono tra governo e imprese) si è sempre associato a una blanda concezione dell’onestà. Quando Bertie Ahern è stato Taoiseach (primo ministro), ha sempre difeso il modo in cui il suo partito corteggiava gli operatori immobiliari, i costruttori e i banchieri in alcuni degli eventi sociali e sportivi più importanti della nazione. All’apice del boom della Tigre celtica disse: “Se non ci fossero loro a creare ricchezza, io non potrei redistribuirla”.

La realtà è che Ahern ha governato su un’isola inventata. Quando iniziarono a comparire i primi preoccupanti segnali dell’insostenibilità del boom edilizio – che da solo assicurava circa un quinto degli introiti complessivi del ministero irlandese delle finanze – Ahern rispose alle domande rivoltegli in proposito che “l’èra del boom sta per trasformarsi nell’èra di un boom ancora più grande”. Non prese alcun serio provvedimento per abbassare l’incosciente dipendenza dello stato dalle proprietà immobiliari e dal settore edilizio.

L’isola dei bei tempi, l’Irlanda dei santi e degli studiosi, si è trasformata nella terra di ladruncoli e speculatori, nell’avamposto produttivo delle multinazionali americane. Il miracolo economico irlandese è sempre stato un’allucinazione, perché le aziende americane – quasi tutte del settore chimico-farmaceutico o elettronico – l’hanno utilizzata soltanto come un paradiso fiscale in pieno Atlantico, come la strada più facile per approdare sul mercato dell’Unione Europea. Irlanda Inc è sempre stata di gran lunga più ricca dei lavoratori della nazione, la maggior parte dei quali guadagna meno di 40mila euro l’anno anche in tempi favorevoli. Per tutti quegli anni, la popolarità – insieme alla pace con i sindacati – è stata comperata a colpi di sgravi fiscali del reddito. Quando Ahern si è insediato nel 1997, mediamente il singolo cittadino che guadagnava 40mila euro l’anno pagava in tasse il 40.6 per cento del suo reddito. Nel 2004 a parità di reddito il suo contributo al fisco era sceso ad appena il 19,7 per cento.

Se a Dublino di questi tempi c’è una filosofia al governo è questa: ogni irlandese deve accollarsi una parte delle sofferenze. Nel frattempo aumentano però i timori che la terapia shock di Dublino possa innescare la deflazione, che significherebbe non solo l'interruzione dei servizi pubblici, ma lo sprofondamento dell’Irlanda intera in una depressione vera e propria. (ab)

Crisi bancaria

I governi non vogliono vedere

Dopo mesi di pressioni da parte dell’opinione pubblica, il governo irlandese ha annunciato l'apertura di un’inchiesta sulla crisi del settore bancario irlandese del 2008, riferisce l’Irish Independent. La crisi bancaria, che ha portato alla nazionalizzazione della Anglo-Irish Bank e alla ricapitalizzazione di altre banche, ha colpito duramente la popolazione irlandese. Nel caso della sola Aib si parla di 30 miliardi di euro. Come se le preoccupazioni per il colossale indebitamento nazionale irlandese, nell’ordine di circa 75 miliardi di euro, non fossero già abbastanza, il Sunday Independent rivela che entro il 2014 esso potrebbe addirittura raddoppiare. Il problema è aggravato dal rifiuto di aumentare le tasse – “abbassate dal 2007 da un picco di 47,3 miliardi di euro ad appena 33 miliardi l’anno scorso”. Di conseguenza, scrive ancora il quotidiano, è “devastante prendere atto dell’allarmante situazione finanziaria nella quale versa il paese, tenuto conto che un quinto delle tasse servirà a ripagare gli interessi del debito”.

La riluttanza di Brian Cowen a condurre l’inchiesta pubblicamente potrebbe infiammare ulteriormente gli animi. La tendenza a insabbiare le inchieste è comune al governo olandese: Trouw riferisce infatti che le prime udienze della commissione d’inchiesta incaricata di indagare sulla crisi bancaria – svoltesi il 18 dicembre - non sono sottoposte a giuramento. La commissione si ripropone di far luce sugli aiuti statali olandesi a banche come Ing (10 miliardi di euro), Aegon (3 miliardi di euro) e Sns Reaal (750 milioni di euro). Secondo il Netherlands Bureau for Economic Policy Analysis, nel 2009 l’economia olandese ha subito una contrazione del 4,75 per cento.

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