Rassegna Core Europe

Deglobalizzazione: un’opportunità per l’Europa?

Il rallentamento della globalizzazione, in un contesto di crescenti tensioni, mette in crisi le certezze dell'ordine mondiale esistente. Tuttavia, questo cambiamento presenta opportunità per i paesi europei, in particolare quelli centrali e meridionali.

Pubblicato il 6 Novembre 2024

Il fantasma della deglobalizzazione aleggia sull’economia mondiale, mentre protezionismo, barriere commerciali e un sentimento di anti-immigrazione guadagnano terreno, scrive l’economista Moisés Naím in un articolo per El País riferendosi al clima del summit tra i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali, tenutosi a Washington alla fine di ottobre.

“È da molto che si dice che i partner commerciali alla fine diventano amici. Oggi, è chiaro che è più probabile che gli amici diventino partner commerciali”, scrive Aloysius Widmann sul giornale viennese Die Presse. Dall’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, è emersa una nuova geografia dei commerci: con l’aumento dei flussi di scambio all’interno dei blocchi politici, quelli tra i grandi blocchi si stanno indebolendo. Le aziende occidentali scelgono di acquistare sempre più spesso beni a costi maggiori dai paesi alleati piuttosto che offerte economiche dai paesi sotto l’influenza di Pechino o Mosca. Questa grande ristrutturazione delle catene di approvvigionamento – chiamata “friendshoring” – potrebbe rivelarsi un’opportunità per le economie europee, nonostante le difficoltà che comporta. 

La Spagna trae vantaggio dall’onda attuale della deglobalizzazione, un andamento alimentato dalla convergenza di fattori tra cui le tensioni geopolitiche, la pandemia del Covid-19, un protezionismo in aumento, lo spirito nazionalistico e gli sviluppi tecnologici, secondo Luis Alberto Peralta, redattore del quotidiano di economia Cinco Días. Il paese sta già raccogliendo i benefici degli sforzi di rilocalizzazione dell’industria tessile e dell’abbigliamento, spinti dal desiderio di ridurre al minimo la distanza tra la produzione e il consumo e dalla crescente domanda di flessibilità nel settore. Inditex, la società madre della catena di abbigliamento Zara, produce oggi metà della sua merce in Spagna e in tre dei paesi confinanti. 

Inoltre, l’anno scorso il colosso dei semiconduttori Broadcom ha annunciato il piano di investimento di circa 920 milioni di euro in un nuovo stabilimento in Spagna, allineandosi così alla strategia più ampia dell’Europa di raggiungere l’autonomia in questo importante settore. 

Un segno del cambiamento delle dinamiche mondiali, è il fatto che il Portogallo – difficilmente considerato una grande potenza industriale in passato – stia diventando una delle mete preferite per i nuovi investimenti nella produzione, secondo l’indice di nearshoring del 2024 di Savills. The Portugal News riferisce che la nazione iberica attrae maggiore interesse non tanto per il suo patrimonio industriale, quanto per le risorse attuali: indipendenza energetica ottenuta da fonti rinnovabili, stabilità politica, manodopera qualificata, solide referenze ambientali e un equilibrio strategico tra Europa e America. 

Anche l’Italia vede un’opportunità in questo cambiamento del contesto commerciale globale. La posizione strategica dello stivale nel Mediterraneo è cruciale sotto due aspetti, scrive Carlotta Scozzari per La Repubblica. Sia per le tradizionali rotte Asia-Europa dei container – in cui l’influenza cinese è molto forte, come si nota dall’interesse di Pechino per i porti come quello di Savona – sia per le catene di approvvigionamento più corte che stanno emergendo. La premier di estrema destra Giorgia Meloni punta a sfruttare la posizione strategica del paese attraverso il suo progetto del Mediterraneo, in particolare guardando al crescente peso economico dell’Africa. La questione riguarda se l’Italia possa trasformare la sua posizione strategica in un vantaggio commerciale di lunga durata. 

Anche se la globalizzazione perde fascino, l’Europa centrale intravede un’opportunità. In un articolo su Hospodářské noviny, l’economista Jaroslav Vybíral nota che in un ambiente di relazioni tese tra Stati Uniti e Cina e un linguaggio denso di riferimenti tariffari, le aziende dell’Europa occidentale stanno ripensando le catene di approvvigionamento. Ciò che si è imparato della pandemia rispetto ai rifornimenti medici ha permesso una riflessione più ampia sulle sedi produttive. Gli investitori oggi considerano la stabilità legale, le infrastrutture e l’allineamento politico dei paesi, oltre ai soliti parametri quali la manodopera e i costi energetici. L’Ungheria è un esempio di questo nuovo calcolo: anche se la sua posizione politica attrae investimenti cinesi – dalle auto BYD alle batterie NIO – ha però reso vani i tentativi ungheresi di acquisire la spagnola Talgo, azione considerata troppo rischiosa nel clima politico attuale. 

“Siamo la Cina dell’Europa. Ne diventeremo anche il Taiwan?” chiede Zbigniew Bartuś su Forsal.pl. La domanda evidenzia la metamorfosi industriale della Polonia. Definita un tempo la fabbrica d’Europa data la sua abilità nel produrre qualsiasi cosa, dalle lavastoviglie ai componenti delle automobili, oggi vuole ottenere un ruolo più ambizioso: diventare il centro di semiconduttori del continente. Mentre le società di tutto il mondo ripensano le catene di approvvigionamento in un contesto di tensioni geopolitiche, la Polonia si ritrova al centro tra due tendenze: la glocalizzazione – l’adattamento dei prodotti globali ai mercati locali – e il nearshoring, ovvero la delocalizzazione della produzione in luoghi più vicini ai mercati interni. 

Un’impennata nell’interesse per la delocalizzazione in Europa – il 67 percento dei potenziali investitori oggi considerano questa scelta, rispetto al 27 percento del 2020 – ha reso la Polonia la seconda destinazione preferita, subito dopo i mercati interni delle aziende. Lo stabilimento di semiconduttori di 4,6 miliardi di dollari della Intel vicino a Breslavia evidenzia il passaggio da una produzione di base a una high-tech. Tuttavia, la trasformazione della Polonia incontra alcune difficoltà: le sue ambizioni sono ostacolate da pressioni salariali, grovigli burocratici e una lenta transizione ecologica. Il fatto più significativo è che il 60 percento delle aziende locali sono in ritardo sulle ESG in un mercato sempre più attento alla sostenibilità. 

“Sta per finire la fase della globalizzazione che si concentrava principalmente sulla Cina”, scrive Alexander Börsch nel Frankfurter Allgemeine Zeitung. Börsch afferma  che questo sviluppo – insieme ai neologismi che fino a poco fa non avevano significato, come deglobalizzazione, friendshoring, disaccoppiamento e derisking – offre un’ottima opportunità attraverso la diversificazione della catena di approvvigionamento, potenzialmente dando inizio a una fase diversa e più complessa di globalizzazione che integra nuovi mercati e paesi. 

Contrariamente alle affermazioni che la deglobalizzazione stia spingendo le aziende a ritornare verso casa, le società stanno rilevando un percorso diverso. Per le potenze esportatrici come la Germania, l’opzione di ritirarsi è difficilmente presa in considerazione. Al contrario, le aziende tedesche stanno scommettendo su nuovi mercati e regioni, potenzialmente inaugurando una fase più diversificata del commercio globale.

Sullo stesso giornale, Karl Haeusgen e Jeff Rathke spengono l’entusiasmo del “friendshoring”, il riorientamento delle catene di approvvigionamento verso alleati politici ed economici. Con le democrazie che rappresentano a malapena i due terzi del Pil mondiale, tali politiche di commercio discriminatorie sarebbero una ricetta per l’auto-impoverimento. Gli autori sostengono un approccio più sfumato: limitare il commercio solo ai settori più sensibili e con veri e propri stati canaglia, mantenendo invece i mercati aperti altrove. L'obiettivo, sostengono, dovrebbe essere quello di migliorare la sicurezza economica attraverso partenariati strategici, non di rifiutare completamente i partner commerciali non democratici.

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ECF, Display Europe, European Union

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