Analisi Informazione e pubblicità

La problematica dipendenza dei mezzi d’informazione da Google e Facebook

Le grandi aziende tecnologiche convogliano una parte consistente del traffico ai mezzi d'informazione, ma si prendono una fetta sproporzionata dei ricavi pubblicitari. E anche quando ci sono degli accordi per ripartirseli, è "Big Tech" che stabilisce le regole.

Pubblicato il 2 Settembre 2021 alle 14:30

La sempre maggior dipendenza dei media dai ricavi generati dalla pubblicità digitale disegna uno scenario nel quale le due compagnie che dominano il mercato, Google e Facebook, dettano le regole del futuro del giornalismo. Le cosiddette Big Tech traggono profitto dal lavoro degli editori, privandoli al contempo di una parte importante degli introiti, a svantaggio soprattutto delle piccole e medie imprese del settore.

Un’analisi il traffico dati online delle sei delle maggiori testate britanniche ha messo in evidenza il fatto che oltre un terzo utenti arriva tramite Google e Facebook. Google ha portato ai siti delle testate The Independent, The Sun, The Times, The Daily Mail, The Telegraph, Reach PLC, Sky e Vice il 25 per cento  delle visite nel 2018 e il 26 per cento nel 2019, mentre Facebook è stato la fonte rispettivamente del 10 per cento del 13 per cento delle visualizzazioni.

La sempre maggiore dipendenza dai profitti delle pubblicità digitali è diventata ancora più evidente durante la fase di svolta di uno dei più celebri giornali al mondo. Nel secondo trimestre del 2020, il New York Times ha annunciato che, per la prima volta, i profitti della versione digitale avevano superato quelli dell'edizione stampata. Gli abbonamenti digitali sono arrivati a generare 146 milioni di dollari (un aumento del 30 per cento), contro i 147 degli abbonamenti cartacei. Per quanto riguarda i ricavi pubblicitari, il digitale ha rapportato 39,5 milioni di dollari, mentre il cartaceo è diminuito del 55 per cento arrivando a 28 milioni di dollari.

"Ci troviamo probabilmente ad un punto di non ritorno", ha dichiarato l’ex amministratore delegato Mark Thompson.  L'egemonia di Google e Facebook nell'ambito della pubblicità online (insieme, le due aziende controllano il 54,1 per cento del mercato) non farà che crescere nella corsa sempre più rapida al digitale causata dalla pandemia. Nonostante non si possa negare che queste aziende amplino parecchio il pubblico dei media, il ricavo che ne traggono è sproporzionatamente grande.

L'iniqua percentuale di Google sui ricavi dei media

Uno studio condotto dalla News Media Alliance ha rivelato che, nel 2018, Google ha incassato 4,7 miliardi di dollari da contenuti pubblicitari; questa cifra, pur rappresentando solo il 4 per cento degli incassi totali di Google lo stesso anno, equivale al 33 per cento delle entrate totali registrate dall'intera industria giornalistica. La ricerca menziona anche il fatto che le notizie rappresentano tra il 16 per cento e il 40 per cento dei risultati di Google. 

Secondo il Pew Research Center, le entrate pubblicitarie totali, per giornali cartacei e digitali, si elevavano nel 2018 a 14,3 miliardi di dollari. Lo stesso anno, Alphabet (l'azienda a cui fa capo Google) ha fatto sapere (dati da bilancio) che le pubblicità su Google hanno fruttato alla compagnia 116 miliardi di dollari, ossia l'85 per cento dei suoi ricavi totali.

Questa tendenza non accenna ad arrestarsi: i bilanci di Alphabet mostrano che, nell'ultimo trimestre del 2020, l'azienda ha fatturato la bellezza di 56,9 miliardi, 46,2 dei quali (l'81,2 per cento) provengono dagli spazi pubblicitari di Google. Queste cifre mostrano un aumento significativo rispetto allo stesso periodo del 2019, in cui la pubblicità su Google ha fruttato alla multinazionale 37,9 dei 46 miliardi di dollari incassati in totale. 

I Big Tech dominano sempre di più questa fetta di mercato, come ha mostrato di recente il resoconto dell'Interactive Advertising Bureau: le dieci principali aziende di pubblicità online possedevano il 78,1 per cento dei proventi nel 2020, in crescita rispetto al 76,6 per cento del 2019 e al 75,9 per cento del 2018. Attualmente, tre colossi della tecnologia si dividono più del 60 per cento del mercato totale: Google (28,9 per cento), Facebook (25,2 per cento) e Amazon (10,3%).

La battaglia legale europea

Editori e legislatori europei hanno lottato a lungo per una distribuzione più equa dei proventi dei Big Tech, ma si sono presto resi conto che è più facile a dirsi che a farsi. Una direttiva europea sul copyright, nota come "Articolo 11", stabilisce un compenso per gli editori ogniqualvolta Google usi una parte di testo proveniente da una loro pubblicazione. Gli editori, però, affermano che i frammenti dei loro articoli spesso scoraggiano gli utenti dall'accedere all'intero contenuto, diminuendo le visite e, quindi, gli introiti.

La Germania ha tentato di imporre una variante di questa legge nel 2013, salvo poi rendersi conto che non sarebbe stato così semplice. Poco dopo aver abbandonato Google News, anche le testate più importanti hanno dovuto inchinarsi al gigante della tecnologia: perfino il più grande editore del paese, Alex Springer, ha ceduto dopo aver visto diminuire del 40 per cento il proprio traffico online generato dalle ricerche e dell'80 per cento quello generato da Google News. Nel 2019, Google ha sconfitto gli editori tedeschi nella battaglia legale sulle tariffe.

In risposta alla Spagna, che tentò di far approvare una legge simile nel 2014, Google rese inaccessibile Google News in tutto il paese. Secondo uno studio condotto dall’azienda di consulenze NERA sul caso, il ritiro di Google News dalla Spagna ha causato un calo complessivo del 6 per cento nel traffico internet, con una diminuzione del 14 per cento per i siti più piccoli.

Nel 2019, il governo francese ha approvato una legge che obbligava Google a remunerare i giornali per l'utilizzo di estratti delle loro pubblicazioni. In base ad un accordo stipulato tra Google e l'Alliance de la presse d'information générale (Apig), il gruppo che rappresenta molte delle principali testate francesi, la multinazionale ha dovuto a pagare 76 milioni di dollari in tre anni a 121 editori francesi di giornali; ciononostante, poco è stato fatto in favore delle realtà più piccole.

La strategia-tipo di Google, come accaduto in Francia e Germania, è di pagare una cifra simbolica destinata, sulla carta, ad aiutare l'industria giornalistica; nella pratica, solo i grandi gruppi editoriali traggono profitto da questa soluzione, mantenendo una posizione di rilievo, mentre le piccole pubblicazioni scompaiono sempre di più negli abissi del web. I soldi di Google, in questo modo, non sono che un cerotto sulle profonde ferite che l'azienda causa all'industria giornalistica.

La stessa cosa è accaduta con Facebook in Australia. A febbraio 2021, con una mossa senza precedenti, Facebook ha bloccato i siti d'informazione australiani sulla sua piattaforma, in risposta ai tentativi del governo di forzare la compagnia a pagare i media autori delle notizie condivise sul social network.

La risposta di Facebook è stata di negoziare accordi lucrativi con i principali media, dettandone i termini. Il principale beneficiario di questi accordi è stato Rupert Murdoch e la sua News Corp, che possiede il 53,4 per cento del mercato giornalistico australiano; i giornali più piccoli, al contrario, si sono visti negare ogni compenso.

Lo scorso aprile, un'indagine del Washington Monthly ha svelato che Facebook, durante il lancio di Facebook News, ha versato direttamente milioni di dollari a giganti dell'informazione come il New York Times, il Washington Post, Bloomberg e il Wall Street Journal per ragioni non esplicitate ma che, si sospetta, mirano a mostrare la piattaforma sotto una luce più favorevole.

Le somme versate si aggirerebbero intorno ai 3 milioni per ogni giornale, corrispondente ad una piccola porzione delle entrate totali di questi ultimi; ciononostante, in questo modo la dipendenza economica dei media verso i Big Tech aumenta, e diventa più difficile controllare l’influenza di queste aziendesu alcune delle voci più autorevoli del giornalismo.

Questo tipo di azioni elitarie non sono una novità per Google e Facebook, che da tempo parlano della necessità di sostenere le "fonti autorevoli", un lessico patinato usato per definire i mezzi d'informazione dominanti fin dalle elezioni presidenziali americane del 2016, e ancora di più dall'inizio della pandemia di Covid-19.

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Più cresce la dipendenza dei media da Google e Facebook, più diventa facile per queste ultime dettare le regole dell'informazione.

Anche il finanziamento da parte di Google dei canali di informazione, tramite l'iniziativa Digital News, avvantaggia le grandi testate a discapito di quelle emergenti. Secondo una ricerca di Netzpolitik, dei 115 milioni di euro stanziati per progetti giornalistici tra il 2015 e il 2018, il 54 per cento è andato a organi di informazione già consolidati sul mercato, contro un misero 10 per cento agli organi di informazione no-profit o di servizio pubblico.

Tramite diverse iniziative, Google ha tracciato più di tutti gli altri colossi della tecnologia la strada del giornalismo negli ultimi anni: dalle AMP (Accelerated Mobile Pages) all'"original reporting", il cui scopo ultimo è di reindirizzare il traffico a favore dei diversi servizi di Google, piuttosto che fornire parità di condizioni e garantire spazio alle diverse opinioni, nonché un'opportunità equa di guadagno per le testate grandi e piccole.

Al contrario, l'"original reporting" è un modo per eludere queste regole morali, qualificando le fake news provenienti da alcune fonti come vera informazione e i fatti provenienti da altre come disinformazione tramite criteri fumosi e selettivi, allo scopo di mantenere il controllo sull'informazione pubblica.

Questo articolo è pubblicato in associazione con il progetto Panelfit, sostenuto dal programma Horizon 2020 della Commissione Europea.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network e  Big Techtopia.


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