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Fondi verdi: la giungla degli indici trasforma petrolio e gas in investimenti sostenibili

Seconda parte della nostra inchiesta sui fondi verdi Eurizon. Per creare i loro fondi le società di gestione del risparmio come la controllata di Intesa SanPaolo, utilizzano degli indici che spesso includono aziende energetiche fossili. Sfruttando le scappatoie delle norme europee possono così proporre fondi “verdi” che in realtà non lo sono. La soluzione? Regole più stringenti.

Pubblicato il 2 Novembre 2023
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Per costituire i loro fondi, le società di gestione del risparmio utilizzano indici di riferimento, detti benchmark. Questi indici sono forniti da agenzie di rating che spesso non prendono in considerazione nessuna caratteristica ambientale e/o sociale e, al contrario, includono aziende attive nel settore, molto redditizio, delle energie fossili. 

Grazie alle ambiguità interpretative a cui si presta il Regolamento europeo sulla finanza verde (SFDR) Eurizon, società di gestione del risparmio controllata di Intesa SanPaolo, riesce a proporre come “verdi” dei fondi che di verde hanno ben poco. Lo fa tramite l’utilizzo di parametri, tecnicamente denominati  indici o benchmark, che hanno poco a che fare con l’ambiente e la sostenibilità. Eurizon gestisce patrimoni di clienti per un valore pari a 381 miliardi di euro e, come scrive nel report di sostenibilità, propone un “umanesimo finanziario basato sul rispetto, sulla responsabilità, sulla consapevolezza delle proprie qualità”.  Una prassi molto comune fra gli asset manager di cui spieghiamo di seguito i meccanismi. Andiamo per passi. 

A cosa servono i benchmark

Come faccio a valutare l’andamento generale di un mercato – ad esempio quello dell’energia eolica – in modo semplice e rapido? Costruisco un indice di riferimento di quel mercato in cui sono presenti, con pesi diversi, i vari produttori di turbine. Le aziende più grandi avranno un peso maggiore sull’indice e quelle più piccole, un peso minore. Quindi se i profitti delle aziende più grandi aumentano, l’indice mostrerà un valore in maggiore crescita, mentre l’andamento delle aziende più piccole avrà un’influenza minore sul valore dell’indice. 

Una società di gestione del risparmio che vuole costruire un fondo che investa nel mercato dell’eolico può quindi usare come riferimento un indice (o benchmark) che già contiene una lista di aziende operanti nel settore. La gestione del fondo si dice “attiva” quando il gestore esclude dal portafoglio alcune aziende, o ne include altre, in base ai propri criteri. 

Per un fondo che voglia targarsi “ESG” (Environmental, social, and corporate governance), ovvero con obiettivi socio-ambientali, ci si aspetterebbe l’utilizzo di un indice contenente aziende operanti nell’eolico, in settori con un impatto ambientale positivo, oppure l’uso di indici “de-carbonizzati” (che danno maggior peso a società meno o non inquinanti).

Eurizon adotta una strategia differente: nei fondi che abbiamo analizzato utilizza indici basati sul mercato del petrolio e del gas per costruire i suoi fondi cosiddetti “green. Tant'è che i suoi fondi includono, oltre ad aziende virtuose dal punto di vista socio-ambientale (secondo quanto dichiarato da Eurizon), società attive nelle energie fossili come Eni, Enel, Repsol, Chevron, TotalEnergies, BP e Shell. 

“Queste società hanno interesse a rientrare nel portafoglio perché in questo modo riceveranno i maggiori finanziamenti solitamente attratti dai fondi classificati come articolo 8 o 9 (i.e. gli articoli dell’SFDR che regolamentano i prodotti finanziari “verdi”).  Se si trovano in tanti fondi, ricevono più investimenti”, spiega Fabio Moliterni, specialista di questioni climatiche e di finanza etica per la società finanziaria Etica SGR.

L’SFDR impone criteri di trasparenza che asset manager e consulenti finanziari devono rispettare, come abbiamo spiegato nella prima parte della  nostra inchiesta. La normativa distingue gli investimenti sostenibili in due categorie: che si limitano a promuovere “caratteristiche ambientali e/o sociali” (articolo 8), detti in gergo “verde chiaro”,  e quelli  che invece devono essere veri e propri “prodotti sostenibili” rispondendo a criteri più stringenti (articolo 9), noti come “verde scuro” (vedi il nostro articolo). 

Come gli investimenti nell’energia fossile diventano “verdi”

Consideriamo, ad esempio, il fondo “Eurizon Energia e Materie Prime”. Questo fondo è costruito con una gestione attiva partendo dai seguenti indici: 50 per cento MSCI World Energy; 45 per cento MSCI World Materials e 5 per cento Bloomberg Euro Treasury Bills. Nessuno di questi indici è legato a metodologie ESG, come dichiarano gli stessi MSCI e Bloomberg. MSCI è l’agenzia di rating che fornisce il 95 per cento degli indici utilizzati da Eurizon per costruire i suoi fondi. 

Nella relazione annuale Eurizon conferma che “non è stato designato un indice di riferimento per il perseguimento delle caratteristiche ambientali/sociali del prodotto”. Non usando un indice di riferimento Eurizon ha stabilito il proprio indice “verde”, affrancandosi dagli specifici obblighi previsti dagli standard tecnici dell'Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA). In questo modo non deve spiegare agli investitori come i suoi indici di riferimento garantiscono il perseguimento di “caratteristiche ambientali e sociali” (articolo 8 dell’SFDR) del suo fondo.  

Lo può fare pretendendo di essersi discostata in certa misura dall’indice di riferimento – la gestione attiva menzionata più su – aggiungendo al portafoglio delle aziende più ecologiche che permettono al suo fondo di conseguire complessivamente obiettivi socio-ambientali, o togliendone altre più inquinanti. Lo stesso SFDR consente ai gestori autonomia e flessibilità nella valutazione di tali obiettivi. Questa valutazione viene fatta dalla stessa MSCI che ha fornito gli indici usati da Eurizon, “sulla base della valutazione del profilo ambientale, sociale e di governance delle società oggetto di investimento”. Nella   relazione annuale di Eurizon, la valutazione indica un punteggio “ESG”  di 6,95 (su 10) per il fondo che gestisce.  


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MSCI quindi da una parte fornisce a Eurizon un indice di fatto privo di criteri socio-ambientali, dall’altra valuta e assegna un voto sufficiente alla performance socio-ambientale del fondo Eurizon basata sullo stesso indice. Questo sistema fondato su parametri arbitrari decisi dagli stessi gestori e dalle agenzie di rating, senza controllo da parte delle istituzioni pubbliche, fa sì che anche un fondo che finanzia i grandi emettitori di CO2 possa presentarsi come verde. Insomma, a fare da arbitri sono gli stessi giocatori che possono adattare le regole del gioco alle proprie necessità.

È lo stesso meccanismo perverso all’origine della crisi finanziaria del 2008, dove le agenzie di rating che dovevano valutare la qualità dei mutui erano pagate dalle stesse banche che quei emettevano mutui, con un chiaro conflitto d’interessi. 

Le domande degli standard tecnici regolatori sugli indici di riferimento a cui Eurizon non risponde
Le domande degli standard tecnici regolatori sugli indici di riferimento a cui Eurizon non risponde. | Fonte: Standard Tecnici Regolatori dell’Unione europea

Grazie a questo accrocchio, Eurizon può affermare  che il fondo effettua investimenti propriamente “sostenibili” per una quota del 17,21 per cento.  Anche questa percentuale è stata ottenuta “secondo la metodologia adottata dalla SGR” (il gestore del fondi), come precisa Eurizon. Eurizon non fa nemmeno riferimento alla  tassonomia europea. Adottata nel 2022, è una sorta di decalogo della finanza verde che elenca le tipologie di investimenti ritenuti sostenibili dall’Ue, dai quali sono ovviamente esclusi  gli investimenti in attività petrolifere, come quelle comprese nei fondi Eurizon. Lo SFDR ammette prodotti “sostenibili”, non allineati alla tassonomia, purché i gestori lo dichiarino. E infatti nella relazione annuale  Eurizon scrive: “La quota di investimenti ecosostenibili ai sensi del Regolamento (Ue) 2020/852 (ovvero allineati alla tassonomia Ue) è stata valutata pari allo 0 per cento”. 

“Quelli che vogliono agire bene devono farsi carico di norme più stringenti rispetto a quelli che vogliono fare del male. Basta dire ‘non sono conforme alla tassonomia’ e il gioco è fatto, non c'è nessun problema, bisogna essere trasparenti e va bene così”, argomenta l’eurodeputato verde Bas Eikhout, giudicando eccessivo il margine di manovra offerto dalla normativa.

Sebbene l’SFDR non imponga ai gestori di fondi di utilizzare la tassonomia per classificare i propri fondi come "sostenibili", l'Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) ci ha dichiarato che, oltre agli investimenti previsti dalla tassonomia, “qualsiasi altro investimento sostenibile non deve danneggiare in modo significativo alcun obiettivo ambientale o sociale”. Inoltre, Eurizon era tenuta a calcolare, in base agli indicatori richiesti dal Regolamento, il potenziale impatto ambientale dei suoi investimenti dichiarati come sostenibili. Le attività dannose da considerare sono quelle specificate nella tassonomia, come prescritto dall’SFDR.

Tra esse ci sono, ad esempio, le alte emissioni di CO2 e altri inquinanti atmosferici, il degrado della biodiversità o la contaminazione delle acque, tutte associate all’estrazione e al consumo di idrocarburi, il settore dove operano diverse aziende del portafoglio di Eurizon. Quest’ultima tuttavia non ha ottemperato a questo obbligo pertanto ha finito per qualificare come ‘sostenibili’ (articolo 9), dei prodotti  che invece si limitano a promuovere ‘caratteristiche ambientali e sociali’ (articolo 8). Lo abbiamo spiegato nella prima parte della nostra inchiesta. Da noi interpellata, la finanziaria ha corretto il linguaggio usato nelle sue comunicazioni con gli investitori, eliminando la qualifica di “fondo sostenibile e responsabile” dai documenti per-contrattuali.

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