Un’intelligenza non così artificiale: i lavoratori invisibili dietro l’ia

Precari, isolati e resi invisibili dalle piattaforme digitali, i lavoratori dietro l’intelligenza artificiale sono tanto fondamentali quanto invisibili. Senza di loro non esisterebbero ChatGPT, Midjourney o Gemini. Testimonianze.

Pubblicato il 28 Gennaio 2025

Dopo aver concluso gli studi universitari in California, Dylan Baker è stato assunto da Google: un percorso classico per un giovane ingegnere informatico deciso a ripagare i debiti universitari. Entrato a far parte del colosso tech nel 2017, Baker si è dedicato all’apprendimento automatico, una tecnica che permette ai sistemi di intelligenza artificiale (ia) di "imparare" sulla base dell’elaborazione dei dati senza ricevere istruzioni esplicite.

Per mettere in atto questi processi si utilizzano i cosiddetti "dati etichettati". Si tratta di dati accompagnati da ulteriori dettagli sul loro contenuto, come l’immagine di un gatto con annessa l’indicazione della posizione di orecchie e muso, oppure il video di una persona con la trascrizione delle sue parole o dell’emozione espressa.

Dylan e i suoi colleghi ricevono questi pacchetti di dati per alimentare i sistemi di Ia. “All’inizio della mia carriera non immaginavo nemmeno che l’etichettatura dei dati fosse un lavoro”, racconta Baker. “Ricevevamo i dati etichettati. Ma da chi e in che modo? Non ce lo chiedevamo nemmeno”. Solo in seguito, attraverso ricerche personali, Baker scopre le condizioni di lavoro delle persone che “etichettano” i dati che lui riceve.

Addestratori dell’ia senza diritti

Un gran numero di lavoratori e lavoratrici nel settore dell’ia sono impiegati in grandi centri situati in paesi dove la manodopera costa meno. Altri lavorano per piattaforme come Amazon Mechanical Turk o Clickworker.

Sparsi in tutto il mondo, questi lavoratori e lavoratrici si dedicano a quelli che vengono definiti “lavori del clic”, ovvero micro manipolazioni standardizzate e poco qualificate. Le aziende e le organizzazioni clienti inviano le loro richieste o “missioni” alle piattaforme digitali, pagando per ciascuno di questi servizi solo pochi centesimi di dollaro.

Nel 2022 la “dissonanza cognitiva” – come la definisce Baker – tra i suoi valori e il lavoro quotidiano diventa insostenibile. I suoi superiori ignorano sistematicamente le sue preoccupazioni riguardo ai bias nei sistemi di Ia e alle condizioni di lavoro delle persone che producono i dati. Così decide di lasciare Google per unirsi al Distributed AI Research Institute (DAIR) fondato da Timnit Gebru, ingegnere e ricercatrice di etica dell’Ia, licenziata proprio da Google qualche anno prima. Oggi Baker, ventottenne, si occupa di  ricerche sull’etica dell’Ia e si batte per migliorare le condizioni di chi lavora per addestrare questi sistemi.

Per questo il 21 novembre scorso Baker è stato invitato al Parlamento europeo per partecipare a una discussione organizzata dall’europarlamentare francese Leïla Chaibi (GUE/NGL,sinistra). “Sono qui per esporre il mio punto di vista da ingegnere ma soprattutto per dire: ‘Ascoltate i lavoratori e le lavoratrici’”.

Un lavoro pagato pochi centesimi

Seduta accanto a lui, con il viso parzialmente nascosto dai lunghi capelli castani con punte lavanda, Oskarina Fuentes è una delle tante lavoratrici invisibili dietro l’ia. Venezuelana, 34 anni, ci racconta quello che è il suo lavoro da circa un decennio. Collabora con numerose piattaforme ma, vincolata da accordi di riservatezza, può citarne solo una: Appen.

Questi vincoli sono tutto ciò che ha sottoscritto con queste aziende. Fuentes lavora infatti senza contratto e viene pagata a cottimo. Ha iniziato nel periodo dell'università, quando sognava una carriera nel settore petrolifero nazionale, ma l’inflazione aveva già reso il bolívar venezuelano privo di valore. Le piattaforme pagavano in dollari, pochi centesimi per ogni attività ma “per vivere, comunque meglio dello stipendio minimo venezuelano”, spiega. Nel tempo, questo lavoro è diventato il suo unico mezzo di sostentamento e ora, con un computer di seconda mano acquistato sul mercato nero, passa le giornate su cinque piattaforme diverse.

Nel 2019 “la vita in Venezuela era diventata impossibile”.  La crisi economica e le continue interruzioni di corrente e connessione a internet la costringono a lasciare il paese. Prende un bus per la Colombia e, poco dopo il trasferimento, si ammala. Le viene diagnosticato un diabete di tipo 1 che la rende inabile a sostenere un lavoro dai ritmi ordinari. Non ha quindi altra scelta se non le piattaforme digitali.

Oggi Fuentes è diventata una vera e propria tuttofare. Le attività più richieste sono la verifica dei risultati degli algoritmi (come il risultato di una ricerca su Google), l’aggiornamento di informazioni su aziende e individui o l’analisi di video per determinarne la fascia d’età di riferimento. Tuttavia, negli ultimi anni le richieste sono calate. Per mantenere un reddito minimo è costretta a registrarsi su più piattaforme: “Tengo aperte tutte le finestre sul piccolo schermo del computer. È faticoso per gli occhi, ma non ho altra scelta, devo farlo per pagare l’affitto e le bollette”. La retribuzione varia da 1 a 5 centesimi di dollaro per attività e la concorrenza è spietata. La giovane donna non stacca mai del tutto. “A volte mi sveglio alle 3 di notte solo per guadagnare pochi centesimi”.


“È una strategia di marketing ben costruita da parte delle piattaforme quella di affermare che un giorno l’Ia non avrà più bisogno degli esseri umani” – Dylan Baker, ricrcatore su ia ed etica


Isolati, precari e in competizione anche per gli incarichi più semplici, i click worker sono invisibili alle grandi aziende tecnologiche. Senza un contratto, lavoratori e lavoratrici sono alla mercé delle aziende. Una consegna, se ritenuta insoddisfacente, può essere rifiutata. In questi casi, anche se il cliente conserva i dati prodotti, la persona resta senza paga, perdendo così ore di lavoro preziose. Spesso senza nemmeno essere informata sul perché il suo lavoro sia stato rifiutato.

Durante l'evento al Parlamento Ue, Yasser Al Rayes racconta la sua esperienza in video collegamento dalla Siria. Alle sue spalle c’è una grande finestra da cui si intravedono gli edifici di Damasco. Neolaureato in informatica e intelligenza artificiale, Yasser descrive le sfide quotidiane: “Non abbiamo una connessione internet stabile, le interruzioni di corrente [sono frequenti] e lavorare in un luogo con una buona banda larga è costoso”, spiega. "Ma talvolta i clienti delle piattaforme hanno standard molto elevati riguardo al completamento delle attività”. Se vieni disconnesso a metà di un compito possono rifiutarsi di pagare. “Si può persino essere cacciati dalla piattaforma” se succede troppe volte, denuncia il giovane siriano.

Nel documentario realizzato per il progetto Data Worker Inquiry, Yasser racconta le sue giornate: ore passate a cercare di comprendere le istruzioni ricevute solo per vedere il suo lavoro respinto: “Ecco, ho completato tutte le attività richieste oggi. I supervisori le hanno approvate ma il cliente no. Devo rifare tutto da capo”. Dieci ore di lavoro andate in fumo.

Per fronteggiare questi abusi e decifrare istruzioni talvolta ambigue, i micro-lavoratori hanno dovuto organizzarsi autonomamente.

Anche negli Stati Uniti, Krystal Kauffmann affronta un destino simile a quello di Oskarina Fuentes: inizia a lavorare per le piattaforme a causa di una malattia cronica che le impedisce di svolgere altre attività. “Era il 2015, prima della pandemia, e il lavoro da remoto non era comune nella mia zona”, racconta la donna originaria del Michigan. "Così ho cercato su Google opportunità di lavoro da remoto e ho trovato Amazon Mechanical Turk".

Dopo anni di lavoro solitario davanti allo schermo, Kauffman ha deciso di unirsi a Turkopticon, un’organizzazione creata da lavoratori e lavoratrici di piattaforme di micro-lavoro, di cui poi è diventata la responsabile. È anche ricercatrice presso l'istituto DAIR dove è venuta a conoscenza delle enormi disparità salariali del settore a livello internazionale: “I miei colleghi in America Latina o India vengono pagati molto meno di me per lo stesso lavoro”.

Nata come semplice forum per valutare attività e clienti, Turkopticon è oggi una piattaforma che unisce lavoratori e lavoratrici di tutto il mondo, offre loro sostegno e si batte per i loro diritti. “In un mondo ideale, [lavoratrici e lavoratori] nel settore dei dati sarebbero riconosciuti come esperti nel loro campo. Avrebbero accesso a condizioni di lavoro eque, supporto psicologico e un salario dignitoso ”, sottolinea Kauffmann.

“L’Ia generativa avrà sempre bisogno degli esseri umani”

“È un momento cruciale: l’Unione europea sta valutando come regolamentare l’Ia e il lavoro legato all’Ia”, spiega Leïla Chaibi. È fondamentale concentrarsi su “quei lavoratori che operano a monte dell’algoritmo”. Queste figure, ancora più invisibili perché dietro a un telefono o un computer, vengono sistematicamente omesse dalle discussioni europee sulla regolamentazione dell’intelligenza artificiale.

Lo spagnolo Nacho Barros ricorda i suoi primi passi sulle piattaforme durante il lockdown del 2020: “All’inizio lo trovavo abbastanza affascinante. Alcuni lavori mi piacevano. Ma mi sono presto reso conto che tutto il tempo che passavo a selezionare le mansioni, registrarmi sulle piattaforme e qualificarmi per le varie missioni non veniva retribuito”. Constatata l’estrema precarietà di questo lavoro, Barros è tornato a lavorare nel settore alberghiero. Tuttavia, continua a portare avanti la battaglia per una regolamentazione del lavoro del clic. Se esistesse un quadro di tutele e, come sottolinea, “una paga dignitosa”, Nacho sarebbe felice di riprendere quel lavoro a tempo pieno.

“L’Ia generativa avrà sempre bisogno degli esseri umani. Il linguaggio è in costante evoluzione”, osserva Krystal Kauffman. Dylan Baker concorda: “È una strategia di marketing ben costruita da parte delle piattaforme quella di affermare che un giorno l’Ia non avrà più bisogno degli esseri umani. Ma non è affatto una previsione realistica. Senza un contributo umano costante i modelli di Ia finirebbero per autodistruggersi”.

👉 L'articolo originale su Basta!
🤝 Questo articolo è stato pubblicato nell'ambito del progetto collaborativo Come Together

Questo articolo ti interessa?

È accessibile gratuitamente grazie al sostegno della nostra comunità di lettori e lettrici. Pubblicare e tradurre i nostri articoli costa. Per continuare a pubblicare notizie in modo indipendente abbiamo bisogno del tuo sostegno.

Mi abbono
Do il mio contributo

Leggli gli altri commenti Divento membro per tradurre i commenti e partecipare
Live | Finanza verde: le promesse e il greenwashing. Le nostre inchieste

Perché gli eco-investitori si ritrovano a finanziare le “Big Oil”? A quali stratagemmi ricorre la finanza per raggiungere questo obiettivo? Come possono proteggersi i cittadini? Quale ruolo può svolgere la stampa? Ne abbiamo discusso con i nostri esperti Stefano Valentino e Giorgio Michalopoulos, che per Voxeurop analizzano i retroscena della finanza verde.

Vedi l'evento >

Sei un media, un'azienda o un'organizzazione? Dai un'occhiata ai nostri servizi di traduzione ed editoriale multilingue.

Sostieni un giornalismo che non si ferma ai confini

Approfitta delle offerte di abbonamento oppure dai un contributo libero per rafforzare la nostra indipendenza

Sullo stesso argomento