La "Fuckparade" 2007 a Berlino. Foto Zeitrafferin.

La banalità dell'underground

Tollerati dalla maggioranza, strumentalizzati dalle aziende, oggetto di fenomeni di riappropriazione, gli stili di vita alternativi non stupiscono più nessuno. Si può ancora parlare di sottoculture? Se lo chiede il settimanale romeno Dilema Veche.

Pubblicato il 17 Giugno 2009 alle 14:54
La "Fuckparade" 2007 a Berlino. Foto Zeitrafferin.

"Sottocultura: gruppo sociale, etnico, regionale o economico che presenta comportamenti specifici che lo distinguono dagli altri membri di una società o di una cultura più ampia". È la definizione fornita dal dizionario online Merriam-Webster. Il termine sottocultura è abitualmente associato all'idea di underground e clandestinità. Comunità marginali, che coltivano le differenze che le distinguono dalla maggioranza, sono sempre esistite: dagli anni sessanta a oggi, però, dopo il movimento hippie, la diffusione dei mezzi di comunicazione, la contestazione e le rivolte, l'alternatività è diventata popolare ed è stata ripresa e sfruttata dall'industria, che l'ha trasformata in entertainment.

Alla fine degli anni ottanta il sociologo francese Michel Maffesoli ha dato una nuova interpretazione al senso classico del termine coniando l'espressione "tribù urbane" nel suo libro Il tempo delle tribù. L'opera offre una nuova prospettiva sul fenomeno: anche se motivata da interessi individuali, l'affiliazione alle sottoculture urbane può portare a ricadere nel tribalismo.

Nel frattempo è diventato sempre più evidente che la tolleranza dei gruppi diversi – per stile di vita, modi di vestire, preferenze musicali eccetera – è passata dall'eccezione alla norma. Questi gruppi non si sentono più marginali. Nelle grandi città europee e americane, coppie punk, grunge, goth o emo si tengono romanticamente per mano, visitano i musei e vanno a teatro e all'opera.

L'ultimo gruppo a suscitare un certo scalpore per le sue tendenze violente è stato quello hip hop. Ma anche per loro le cose sono cambiate: in un articolo intitolato "Essere europei nell'esperienza dei giovani", il finlandese Tommi Laitio racconta come la musica rap, giunta in Europa dagli Stati Uniti, abbia assunto tratti regionali e nazionali spesso molto distanti da quelli originali. I giovani turchi l'hanno conosciuta in Germania, dove lavorano i loro genitori. Olandesi, austriaci e portoghesi la cantano nella loro lingua. I polacchi scrivono versi patriottici. Inoltre le grandi marche di vestiti e scarpe, i media e persino l'establishment pubblico fanno ricorso all'hip hop, un tempo musica di protesta, per attrarre un pubblico più giovane.

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Chiedersi se le sottoculture possano essere ancora tollerate dalla maggioranza o rappresentare un sintomo del conflitto tra le generazioni è ormai superfluo. L'unica questione che dobbiamo porci – soprattutto per quanto riguarda i paesi dell'est europeo, dove il sistema educativo e l'atteggiamento generale verso i giovani sembra essere "che se la sbrighino da soli, come ho fatto io alla loro età" – è che la differenza non si trasformi nell'unica alternativa.

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