"In Siria..." "Basta!"

La Siria e l’insostenibile debolezza dell’Europa

L'impotenza dell'Ue davanti alla crisi siriana dimostra la mancanza di una politica estera europea credibile. Ma questa non potrà esistere finché l'Europa non si doterà di un esercito comune.

Pubblicato il 4 Ottobre 2012 alle 15:52
"In Siria..." "Basta!"

Aleppo, Damasco, cadaveri nelle strade, quartieri sventrati, bombardamenti ciechi, immagini e racconti intollerabili, che ci rimandano direttamente ai momenti più tragici di Sarajevo e di Grozny. Città distrutte. E nulla sembra muoversi. Gli Stati Uniti sono in campagna elettorale, gli europei invece vorrebbero intervenire, ma non possono.

Questa impotenza europea non condiziona solo la soluzione di un conflitto che sembra destinato a durare a lungo, ma contribuisce anche alla trasformazione di un conflitto politico in un conflitto militare del tutto asimmetrico. La "democrazia Potëmkin" russa ha sfruttato abilmente questa assenza americana e questa impotenza europea. L'Europa del "soft power" è nuda, e aspetta novembre come se aspettasse Godot, nella speranza di un'iniziativa americana o che gli insorti abbiano preso il sopravvento. In ogni modo al di là del caso siriano, l'Europa deve uscire da questa insostenibile impossibilità strategica.

La questione della debolezza strategica dei paesi europei non può essere letta alla sola luce della capacità (o meno) di condurre delle operazioni di mantenimento o di ristabilimento della pace; si inserisce nel cuore dei movimenti tettonici che agitano il mondo strategico. Gli Stati Uniti lo hanno capito e reagiscono spostando il centro di gravità della loro politica di sicurezza dall'Atlantico al Pacifico, chiedendo agli europei di assumersi maggiori responsabilità. Impegni ai quali gli europei hanno risposto finora solo attraverso una nuova formulazione della cosiddetta politica dello "spendere meno, spendere meglio", cioè la cosidetta "difesa intelligente".

Le missioni di Petersberg

Ma se la difesa, ancora più della moneta, tocca da vicino le prerogative statali delle nazioni, lasciamo allora alla Nato e agli Stati membri la difesa in senso stretto, compresa la questione della dissuasione nucleare, e concentriamoci invece su quello che è già oggetto di consenso nell'Unione : "all'Europa spettano le missioni di Pietroburgo (mantenimento della pace, imposizione della pace e missioni umanitarie) e alla Nato (e quindi agli Stati membri) il mantenimento degli equilibri strategici", scriveva Jean-Jacques Roche lo scorso gennaio.

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Non si tratterebbe quindi di unire gli eserciti (o parte di essi) dei vari Stati membri, ma di creare ex novo accanto agli eserciti nazionali un esercito europeo comune. Con il suo stato maggiore, il suo sistema di reclutamento, le sue scuole militari, le sue basi e le sue strutture di intelligence.

Se si parte dall'ipotesi di una cooperazione rafforzata alla quale aderirebbero inizialmente dieci paesi membri (Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Grecia, Italia, Olanda, Polonia, Portogallo e Spagna) con il trasferimento dello 0,2 per cento del loro Pil – cioè una percentuale compresa fra l'8 e il 20 per cento del loro bilancio destinato alla difesa – in favore dell'esercito europeo comune, i fondi annuali arriverebbero a quasi 18 miliardi di euro. Se a questi si aggiungessero gli inglesi si supererebbero i 21 miliardi di euro. Una cifra non indifferente, se si considera che questi mezzi dovrebbero essere soprattutto destinati a delle forze di proiezione.

Uno strumento militare comune obbligherebbe gli Stati membri a deliberare e a decidere insieme la partecipazione o meno alle missioni di mantenimento o di ristabilimento della pace e sulle modalità di queste operazioni. Inoltre contribuirebbe a definire una politica estera comune e permetterebbe anche agli Stati membri di finanziare quei programmi che non sono in grado di portare a termine da soli. Infine l'esercito comune permetterebbe agli eserciti nazionali degli Stati partecipanti di beneficiare di servizi che hanno sempre più difficoltà a procurarsi da soli (capacità di osservazione e di comunicazione satellitare, protezione contro le minacce batteriologiche, chimiche e nucleari, gruppi aeronavali, servizi di intelligence e così via).

Doppia approvazione

Ma se l'approccio fosse "comunitario", la responsabilità politica dell'organizzazione del funzionamento di questo esercito sarebbe interamente affidata al presidente della Commissione europea e a un commissario per la sicurezza e la difesa. A loro spetterebbe la decisione sull'opportunità di impegnare o meno l'esercito comune nelle operazioni di mantenimento o di ristabilimento della pace. Questa decisione sarebbe sottoposta alla duplice approvazione del Parlamento europeo e del Consiglio dei paesi partecipanti alla cooperazione rafforzata.

Attraverso questo consiglio gli Stati membri – e in particolare quelli più densamente popolati – conserverebbero un buon controllo aritmetico e politico sulla decisione sul ricorso alla forza. Questo esercito comune sarebbe integrato alla Nato in quanto riserva strategica, sulla base di modalità da definire con l'insieme dei membri del Patto atlantico. La cooperazione rafforzata sarebbe aperta a tutti i paesi dell'Ue che accettassero che questo esercito comune diventi parte integrante della Nato.

Qualcuno potrebbe osservare che l'Unione europea in questo periodo di crisi ha altri problemi da risolvere. Ma dire questo significa non rendersi conto di quello che la creazione di questo esercito europeo comune potrebbe fornire in termini di credibilità politica al progetto europeo nel suo insieme, compreso fra gli attori economici.

Del resto il budget dell'Unione sarebbe di fatto aumentato di più del 20 per cento. L'esercito comune permetterebbe inoltre di tenere conto degli effetti centripeti in termini di sviluppo economico attraverso gli investimenti nei paesi del sud per le principali infrastrutture necessarie.

Europei convinta

Con il cancelliere tedesco Angela Merkel, con l'uomo forte del suo governo Wolfgang Schauble, con il presidente francese François Hollande, con Giorgio Napolitano, con il presidente del consiglio italiano Mario Monti, con il polacco Donald Tusk e lo spagnolo Mariano Rajoy, raramente l'Europa ha avuto così tante personalità di primo piano apertamente europeiste. Se a queste si aggiunge il primo ministro inglese, noto per il suo pragmatismo, vi è più di un motivo per ritenere che il momento sia favorevole. Tuttavia la "finestra di lancio" è ridotta, poiché in primavera ci saranno le elezioni politiche in Italia e poi sarà il momento della Germania.

Tutto questo ci ha portato molto lontano dalla tragedia siriana, perché anche se l'Europa si decidesse ad affrontare la questione della sua politica di sicurezza, ci vorrà del tempo prima che questa diventi operativa. Tuttavia si può ragionevolmente ritenere che una decisione europea in questo senso potrebbe avere effetti immediati su quei paesi che oggi bloccano qualunque iniziativa in favore di un'azione della comunità internazionale per fermare la funesta politica del regime siriano.

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