Photo di VanMageta

Le vacche magre arrivano al galoppo

La crisi imperversa in Europa centrale e orientale, e Paesi che - come gli Stati Baltici - vantavano tassi record di crescita, sono obbligati ormai a operare tagli consistenti nei loro budget, a cominciare dagli stipendi dei dipendenti pubblici. E i ministri sono obbligati a dare l’esempio.

Pubblicato il 12 Agosto 2009
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Nel marzo scorso aveva promesso che l’accordo appena siglato con il Fondo Monetario Internazionale non si sarebbe tradotto in una riduzione dei salari. Tuttavia, il governo del Primo ministro romeno Emil Boc si vede costretto in questi giorni a adottare i medesimi spiacevoli e penosi provvedimenti che i suoi colleghi dell’Europa Centrale hanno già preso: tagliare gli stipendi dei funzionari pubblici, a cominciare proprio da quelli di posizione più elevata. I premier vedono dunque i loro stipendi diminuire dell’8,4 per cento, mentre le pensioni aumentano di un modesto 2 per cento.

In Ungheria i ministri del governo di Gordon Bajnai dall’aprile scorso ricevono stipendi inferiori del 15 per cento a quelli dei loro colleghi del precedente gabinetto Gyurcsany. Quanto a Bajnaj, si accontenta di uno stipendio simbolico pari a un fiorino ungherese al mese (0,4 centesimi di euro). Al contempo, i dipendenti pubblici e i pensionati hanno perso la tredicesima, oltre ai sussidi per il riscaldamento e diverse altre facilitazioni, come il credito per l’acquisto di un appartamento. I dirigenti si sono visti dimezzare lo stipendio. Anche gli stipendi dei ministri bulgari e lituani sono calati del 15 per cento all’inizio dell’anno, e quelli dei ministri estoni dell’8 per cento. In Lettonia il taglio è stato ancora più drastico: meno 15 per cento a febbraio e un ulteriore meno 20 per cento a giugno.

In condizioni ancora peggiori rispetto ai loro ministri, i professori lettoni si sono visti cancellare il 40 per cento dello stipendio dell’anno precedente. Del resto, dal primo luglio le pensioni e altre concessioni sono calate del 10 per cento, e gli assegni familiari sono stati dimezzati. La Lettonia, pertanto, nell’arco di pochi mesi è passata dallo status di Paese con la più forte crescita nell’Unione Europea a quello di “malata d’Europa”, perché si prevede che il suo Pil quest’anno cali del 18 per cento, mentre il tasso di disoccupazione salirà fino al 10 per cento.

In Bulgaria le cose non vanno granché meglio: i 400.000 dipendenti del settore pubblico non soltanto si sono visti congelare lo stipendio, ma al momento sono costretti ad avvalersi delle loro risorse personali per poter lavorare in buone condizioni: sono finiti i viaggi d’affari all’estero come pure i rimborsi per le spese telefoniche o di carburante. Come in Romania, sono esentati da questi provvedimenti i dipendenti del Ministero della Giustizia e dell’Interno. Almeno per adesso.

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TRILIONI

Si dovranno rompere i salvadanai

Secondo il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), il costo della crisi è quantificabile in 11,9 “trilioni” (migliaia di miliardi) di dollari, ossia 8.420 miliardi di euro, quasi un quinto del Pil mondiale annuo. Questa cifra, precisa il Daily Telegraph, comprende i miliardi versati dagli Stati alle banche per evitarne il fallimento, le spese per rilevare i cosiddetti titoli tossici, le garanzie sulle ipoteche e le iniezioni di liquidi delle banche centrali. La maggior parte di tale somma – 10.200 miliardi di dollari – proviene dai Paesi sviluppati, precisa ancora il quotidiano britannico, secondo il quale il Regno Unito è il Paese che ha speso di più in provvedimenti d’urgenza per sostenere il settore finanziario: quasi l’82 per cento del suo Pil, pari a 1.227 miliardi di sterline (1.431 miliardi di euro). Il quotidiano britannico conclude che queste spese in media appesantiranno il budget dei Paesi del G20 nella misura del 10 per cento del Pil, un vero record dai tempi della Seconda guerra mondiale.

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