Opinion, ideas, initiatives Dopo il referendum catalano

Naufragio in Catalogna

Il braccio di ferro tra il governo nazionalista catalano e quello di Madrid, sfociato negli scontri che hanno segnato il referendum del primo ottobre sull’autodeterminazione della regione, si è concluso senza vincitori e allontana la speranza di una soluzione politica alla questione catalana.

Pubblicato il 5 Ottobre 2017 alle 18:57

La trappola è scattata. A causa della sua arroganza, del suo orgoglio di politico accecato dal cinismo e dell’illusione secondo cui avrebbe tratto legittimità politica dall’uso della forza, Mariano Rajoy è cascato esattamente dove volevano condurlo i nazionalisti catalani: nella repressione di polizia, nella violenza inaccettabile, nella brutalità insopportabile.

Il capo del governo voleva mostrare i muscoli, ma non ha fatto altro che ravvivare le ombre della dittatura, le ferite di un passato di cui i nazionalisti catalani si nutrono. Ritroviamo già editorialisti che criticano aspramente un paese (la Spagna) la cui classe dirigente di destra sarebbe figlia della dittatura. Tuttavia, la Spagna del 2017, nonostante mandi le forze dell’ordine a bloccare in un modo scandaloso e inammissibile i seggi catalani, non è un regime autoritario e non c’entra nulla con la repressione franchista di cupa memoria. Ma il danno è fatto.

Il messaggio velenoso è passato. In futuro sarà complicato promuovere una distensione e trovare una soluzione politica. Quando scorre il sangue, l’inchiostro dei negoziatori si secca. I nazionalisti, catalani e spagnoli, hanno vinto e gli europei hanno perso. Hanno perso quando hanno cominciato a considerare con indulgenza le rivendicazioni di Barcellona. Non che queste fossero illegittime: gli autonomisti catalani chiedono ulteriore libertà fiscale, culturale, amministrativa. Chiedono gli stessi diritti e lo stesso statuto che il Paese Basco ha ottenuto in cambio della pace seguita agli anni di terrorismo.

La storia riporterà che nel 2006 il governo socialista di José Luis Zapatero aveva concesso questi nuovi poteri alla Catalogna. Poi nel 2010 il suo successore, il conservatore Mariano Rajoy, aveva messo in discussione l’accordo attraverso una decisione molto politica della Corte Costituzionale. Da lì la concatenazione di eventi, l’irrigidimento delle opposte fazioni, il crollo. Perché gli autonomisti avrebbero dovuto fermarsi là. A rigore di logica, avrebbero dovuto continuare a far politica e far crescere instancabilmente, come Sisifo, le proprie rivendicazioni, lavorare affinché un altro governo, a livello nazionale, riprendesse a sua volta gli accordi firmati al tempo di Zapatero.

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L’opportunità e l’inestimabile tesoro offerto da ogni democrazia: rimettere instancabilmente sul tavolo delle proposte per ottenere dei progressi e raggiungere dei compromessi. Invece, hanno preferito lo scatto in avanti, l’escalation, le provocazioni di un Carles Puigdemont. Gli abiti dell’autonomia sono stati risistemati in favore del costume trasgressivo dell’indipendentismo, in un momento in cui ovunque nel mondo l’impulso della globalizzazione e la messa in discussione delle certezze del passato spingono i cittadini a cercare punti di riferimento semplici, scappatoie politiche e identitarie, capri espiatori. Si direbbe che il nazionalismo catalano non è né anti-Ue, né anti-migranti.

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È vero. I nuovi apprendisti stregoni del regionalismo sostengono di agire in virtù del loro europeismo, promettendo una secessione positiva in quanto pacifica, progressista, aperta e conforme ai valori dell’Unione. Ma in realtà hanno tradito lo spirito europeo, perché hanno alimentato il fuoco del risentimento, hanno agitato la memoria di una Catalogna un tempo sottomessa ai Borbone, poi martirizzata dai franchisti. Pensiamo, ad esempio, al fatto che alcune sere una parte dei tifosi del Barça si alzano al diciassettesimo minuto e quattordici secondi per scandire “Independencia!”, per ricordare la caduta di Barcellona nel 1714, conquistata da Filippo V. Certamente, non si può e non si deve negare che la Catalogna fu uno dei principali bastioni di resistenza al Caudillo.

Ma nel 2017 strumentalizzare questa memoria costituisce una rottura, quasi una violazione del patto fondatore dell’Europa unita. Non solo perché l’adesione all’Unione implica in principio l’idea di un certo grado di solidarietà tra le regioni e i cittadini invece che un egoismo economico regionale, ma soprattutto perché gli indipendentisti hanno diffuso il veleno della divisione, della rivincita, del risentimento, che molto spesso sfocia nell’odio. Esiste una singola rivendicazione regionale, specialmente fiscale, che merita il rischio di mettere in discussione la pace in un territorio che ha riscoperto la democrazia, la libertà di opinione, culturale, di parola, di manifestazione dopo tre anni di una terribile guerra civile e 36 anni di una sordida dittatura?

“Perché tutti i cittadini di una nazione condividano un patrimonio comune, bisogna che abbiano dimenticato molte cose delle loro origini”, ricordava Ernest Renan. Ed è questo uno dei principi assoluti dell’Europa costruita dopo la guerra sulle macerie dei conflitti e dei totalitarismi: il ricordo dei dolori, per non dimenticare mai, ma anche il loro superamento. La memoria delle tragedie, ma anche, e sempre, la strada verso la riconciliazione. Carles Puigdemont, invece, ha scelto la strada del scontro. Mariano Rajoy quella della repressione. L’errore per tutti gli europei sarebbe scegliere una fazione e giustificare le azioni di una con l’intransigenza dell’altra. In questa vicenda non ci sono né vincitori, né vinti. Naufragio in Catalogna.

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