Manifesti per il no a Dublino

“No, ma...” al trattato fiscale

L’Europa chiede agli irlandesi di pronunciarsi su un patto di cui ancora non si sa quasi niente. La risposta migliore sarebbe prendere tempo in attesa che la situazione si chiarisca.

Pubblicato il 30 Maggio 2012 alle 10:23
Manifesti per il no a Dublino

Ipotizziamo che vi arrivi una telefonata di sollecito da parte di una certa Angela, che vi convoca nel suo ufficio. Vi mostra la clausola penale di un contratto, quella che specifica le sanzioni alle quali si può andare incontro qualora si venga meno ai termini dell’accordo. Vi dice di firmare, subito, altrimenti passerete dei guai. E voi chiedete: “Ma dov’è il resto del contratto?” Risposta: “Ci stiamo ancora lavorando. Non vi riguarda. Firmate e basta”.

Questa è un’analogia abbastanza calzante con l’assurda situazione nella quale ci troviamo con il trattato fiscale, che – come ammettono ormai tutti – non è il nuovo trattato politico in grado di traghettare l’Unione europea fuori da una crisi potenzialmente letale. Il fatto è che è costituito soltanto da una clausola penale che non ha senso se non si conosce l’accordo vero e proprio. Chiederci di firmarlo prima ancora di sapere che cosa conterrà è un gesto di totale disprezzo.

L’unica reazione intelligente che può avere il popolo irlandese è quella di ricorrere una volta di più alle proprie notevoli risorse: l’arte del ripiego, dell’equivoco e del sotterfugio. L’ora dell’astuzia è finalmente arrivata!

In 1066 and all that, un libro umoristico di storia britannica, gli autori osservano che ogni volta che gli inglesi pensavano di avere una risposta alla “questione irlandese”, gli irlandesi cambiavano la questione. Nell’ambito delle relazioni anglo-irlandesi, la battuta è spiritosa. Ma anche in Europa cambiare le carte in tavola è una pratica irlandese molto collaudata: l’abbiamo già fatto due volte, con il trattato di Nizza del 2001-2002 e con il trattato di Lisbona del 2008-2009.

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Dovendo scegliere tra votare “sì” e “no”, abbiamo optato per il “no, ma sì”, come dire “andate a farvi un giro, tornate, rivolgeteci una domanda un po’ diversa e vi risponderemo sì”. Non si tratta certamente degli episodi più eroici nella storia della democrazia irlandese, ma pur sempre di casi esemplificativi della nostra cultura politica. Forse, però, è arrivata l’ora di accettare e abbracciare il nostro lato esitante. Può anche darsi che “no, ma sì” in realtà sia la risposta più sensata all’assurdità offensiva con cui abbiamo a che fare.

La cosa più ovvia per il governo sarebbe stata rimandare il referendum, perché la crisi europea rende quanto mai variabile il suo significato. Ma neppure questo sarebbe stato particolarmente coraggioso: non soltanto la Francia si è rifiutata di firmare il trattato “così come è”, perfino la Germania ha dovuto rimandarne la ratifica. Il governo è così intimorito dalla prospettiva di allontanarsi di pochi centimetri da quella che viene ritenuta la retta via che ormai sta andando avanti in automatico.

Questo lascia l’elettorato alle prese con un vero dilemma. Le opzioni “sì” e “no” non si avvicinano neppure lontanamente a esprimere quello che prova l’opinione pubblica. La maggioranza dei votanti, immagino, si colloca al momento in uno di questi due campi: a) “sì, perché non c’è alternativa”; b) “no, ma ripassate pure a chiedercelo più avanti, quando avrete una strategia per la crescita funzionante”.

La prima opzione – dobbiamo acconsentire per forza – in realtà non costituisce una valida ragione per votare “sì”. Farlo significa sprecare il proprio voto. Se non c’è alternativa, il referendum è una sceneggiata. È una parodia di democrazia. L’unico modo di conservare un piccolo senso di dignità civile sarebbe uno spreco in massa del voto.

Cambio di direzione

La seconda opzione – “no, però chissà…” – implica che possa esserci un contesto nel quale il trattato fiscale assume un significato. Se per esempio ci fosse un serio impegno nei confronti di un investimento europeo a lungo termine per la crescita, allora gli irlandesi potrebbero fare i loro calcoli in modo radicalmente diverso. E altrettanto accadrebbe con un’adeguata risoluzione europea per le banche, in grado di sgravare le spalle dei contribuenti delle ingenti spese legate al salvataggio delle banche. Peccato non sapere se o in che misura il riaffiorare della crisi ci costringerà a simili radicali cambiamenti di strategia.

Votare “no” con un implicito invito a ripassare più avanti, quando tutti i dettagli della situazione si saranno palesati, potrebbe essere la risposta più onesta alla pretesa di prendere una decisione senza avere le debite informazioni. Oltretutto sarebbe un gesto responsabile da parte di veri cittadini europei incoraggiare un cambiamento di direzione, senza il quale l’Ue si distruggerà da sola.

Cambiare le carte in tavola è una specialità irlandese. Capita che ora questa specialità diventi una necessità vitale per l’Europa.

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