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La vendetta dei “Pigs”: il sud Europa al contrattacco

Gli stati membri dell’Europa meridionale, fino a poco tempo fa oggetto di derisione, stanno entrando in un quinquennio di crescita che fa invidia persino i paesi “modello” del nord Europa, come la Germania.

Pubblicato il 14 Gennaio 2025

“La Spagna dimostra all’Europa come stare al passo dell’economia americana”: una dichiarazione che potrebbe far trasalire chi ricorda la recente crisi economica e del debito, quando il default spagnolo sembrava una possibilità concreta. Eppure, sono queste le parole scelte dal settimanale liberale The Economist, che nota come la Spagna stia superando gli Stati Uniti sia in crescita economica sia nella creazione di posti di lavoro, con un aumento del Pil del 3 per cento, quasi quattro volte superiore alla media dell’eurozona dello 0,6.

Questo successo spagnolo si contrappone nettamente al persistente divario di crescita tra l’Europa e gli USA; un gap così marcato che entro il 2035 la differenza di prosperità tra un europeo e un americano medio sarà paragonabile a quella attuale tra europei e indiani.

Il settimanale spiega che la prosperità della Spagna si basa sulle riforme del sistema finanziario e del mercato del lavoro introdotte dai governi precedenti durante la recessione, che, combinate con i fondi ricevuti dall’Ue, una forte immigrazione, un turismo rinnovato e un aumento delle esportazioni di servizi, stanno dando i loro frutti.

Ancora più sorprendente, la Spagna non è l’unica a ottenere buoni risultati, ma anche tutti gli altri paesi dell’Europa meridionale. Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, le nazioni un tempo maggiormente colpite dalla crisi finanziaria ed economica del 2009-2014 che minacciò la stabilità dell’eurozona, erano state etichettate con il poco lusinghiero acronimo “Pigs” (in inglese significa “maiali”). All’epoca, alcuni teorizzavano persino che le loro scarse performance economiche fossero dovute al clima caldo e al sole abbondante, fattori che potevano incoraggiare l’ozio.

Teorie simili possono essere liquidate come deterministiche o apertamente razziste, ma soprattutto sono ormai superate, dato che, come scrive Ignacio Fariza nel suo articoloLa vendetta dei Pigs” su El País, ad oggi, le condizioni climatiche di queste nazioni sono un vantaggio per le energie rinnovabili. Secondo Fariza, la minore dipendenza dalle fonti energetiche russe e la maggiore incidenza del settore terziario hanno dato loro un netto vantaggio rispetto al nord Europa dopo l’invasione russa dell’Ucraina. La Spagna, sostiene Fariza, che ha sempre faticato a tenere il passo con le rivoluzioni industriali, si trova davanti a “un'occasione d’oro”: i costi dell’elettricità industriale sono inferiori del 40 per cento rispetto alla media dell’Ue, offrendo non solo la possibilità di fermare la deindustrializzazione, ma di attrarre nuovi investimenti industriali. Il giornalista cita l’investimento di Amazon da 16 miliardi di euro in un data center in Aragona, che ha approfittato dell’energia rinnovabile a basso costo, della disponibilità di terreni e della manodopera qualificata: un possibile inizio che potrebbe attirare altre industrie ad alta intensità energetica.

L’entusiasmo per un avvenire prospero e un futuro roseo viene però mitigato dall’analisi di Juan Ramón Rallo su El Confidencial, secondo cui esiste un netto divario tra il primato della Spagna come potenza economica e la percezione che hanno gli spagnoli. Se i dati principali mostrano una forte crescita, Rallo afferma che l’esperienza delle famiglie spagnole racconta una storia diversa. Secondo Rallo, dei 1,74 milioni di posti di lavoro creati dal 2019, 1,35 milioni sono stati occupati da lavoratori stranieri. Pertanto, l’espansione della Spagna dipende principalmente dalla forza lavoro importata, piuttosto che da un aumento della produttività o del tenore di vita dei residenti, e questo spiega perché molti spagnoli si sentano esclusi dalla crescita straordinaria celebrata dal governo socialista di Pedro Sánchez.

Analogamente, Gloria Mena segnala sul giornale La Sexta che le tasche degli spagnoli continuano a restare vuote nonostante i successi macroeconomici. Sebbene i dati economici principali siano brillanti, la concentrazione della ricchezza rivela una realtà più cupa: un decimo della popolazione detiene oltre la metà delle risorse del paese. Lo stipendio medio, di appena 14.586 euro annui, la dice lunga sulla condizione dello spagnolo medio.

Standard di vita e immigrazione sono tematiche centrali anche in Portogallo. La crescita economica del paese sembra essersi tradotta più efficacemente in un miglioramento del tenore di vita dei residenti. Paulo Lopes sottolinea su The Portugal News che secondo l’Ocse  il Portogallo è uno dei primi cinque paesi membri per la crescita del reddito disponibile delle famiglie rispetto ai livelli pre-pandemia. Alla base di questo successo ci sono incrementi salariali significativi e una forte domanda interna. Inoltre, si prevede che l’economia crescerà del 2 per cento nel 2025, un tasso di gran lunga superiore alle previsioni per l’eurozona. André Rodrigues riporta su Renascença che il Portogallo ha bisogno di un afflusso annuale tra 50mila e 100mila per mantenere questa crescita. Uno studio dell’Università di Porto suggerisce che per essere collocato tra i paesi più ricchi dell’Ue entro il 2023, il Portogallo dovrebbe ricevere 138mila nuovi arrivi ogni anno. Il motivo economico è ovvio: gli immigrati hanno contribuito con oltre 2 miliardi di euro alla sicurezza sociale nei primi otto mesi dell’anno, pur potendo beneficiare di soli 380 milioni.

In Italia si respira un senso di sollievo per non essere più considerati l’anello debole dell’economia europea. Gianluca Zapponini afferma su Formiche e con malcelata soddisfazione che in Europa i fautori della disciplina fiscale si trovano in una posizione scomoda. Nell’ultima revisione del semestre europeo – la valutazione annuale dei bilanci degli stati membri – Bruxelles ha lodato Italia, Grecia e Francia per i loro piani fiscali del 2024, criticando invece i paesi del nord tradizionalmente più contenuti. Germania, Finlandia e Paesi Bassi, da tempo sostenitori di limiti severi alla spesa pubblica e di deficit bassi, sono stati definiti “non pienamente conformi” al patto di stabilità e crescita. La valutazione del commissario europeo per gli affari economici Paolo Gentiloni evidenzia quello che Zapponini considera un netto ribaltamento: gli ex paladini dell’ortodossia fiscale stanno faticando a rispettare i propri standard.

Repubblica Ceca: otto anni per raggiungere i salari tedeschi?

“Mi servono otto anni e avremo salari al livello di quelli tedeschi.” Questa dichiarazione del primo ministro ceco Petr Fiala, un docente conservatore diventato politico, ha suscitato un’ondata di scherno. Se le economie dell’Europa meridionale prosperano, la Repubblica Ceca sotto il suo governo di coalizione, insediatosi nel 2021 dopo aver sconfitto il populista miliardario Andrej Babiš, non solo non ha ridotto il divario con la Germania, ma è stata superata dalla Polonia. Come afferma Jan Moláček su Deník N, la Polonia ha affrontato le stesse sfide: una guerra ai confini, rifugiati ucraini e costi energetici vertiginosi, gli stessi fattori che Fiala cita per spiegare i fallimenti economici del suo governo. La Polonia riesce persino a destinare il 4 per cento del PIL alla difesa, il doppio rispetto alla Repubblica Ceca. L’ironia, conclude Moláček, è che la “coraggiosa visione positiva” di Fiala assomiglia incredibilmente al populismo che egli stesso aveva denunciato.

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