Attualità International Documentary Film Festival di Amsterdam

Noi e le nostre trincee vuote: in viaggio in una nuova Europa con il festival del documentario IDFA

L’illustratore e vignettista satirico Emanuele Del Rosso si è recato ad Amsterdam per l’International Documentary Film Festival. Nel suo drawcumentario, un documentario disegnato, ha cercato la risposta ad una domanda semplice eppure enorme: cosa possono insegnare i documentari all’Europa e ai suoi cittadini?

Pubblicato il 30 Novembre 2021 alle 10:49

Era appena cominciato ottobre quando un amico mi ha ricordato che l’IDFA stava per cominciare. Dopo uno iato di un anno per via della pandemia, i documentari tornano ad Amsterdam. Un vero evento, perché l’IDFA è praticamente un'istituzione, nei Paesi Bassi. Il festival esiste dal 1988, e raduna ogni anno registi, esperti e, in generale, amanti del genere documentario.

I numeri dell’IDFA sono altrettanto importanti. Per il 2021, 264 titoli da più di 80 paesi sono proiettati nelle più diverse location: da sale cinematografiche cinema storiche (come il Pathé Tuschinski) a, addirittura, in chiese sconsacrate.

Insomma: l’IDFA è una delle Mecca degli amanti dei documentari.

Un drawcumentario sui documentari

Ma cosa possono fare per noi i documentari? E più nello specifico, cosa possono fare per l’Europa?

La domanda mi ronzava in testa sin dall’inizio di questo reportage. Ultimamente leggo fin troppo i giornali – credo per via della pandemia – e i titoli preoccupati dei media europei hanno cominciato ad avere un effetto negativo su di me: il coronavirus, le tensioni tra paesi europei, i muri in costruzione quelli metaforici – contro i diritti delle donne – e quelli veri, (per tenere i migranti fuori dall’Unione e nella ghiacciaia dell’inverno usati come pedine in un conflitto che non gli appartiene).

Il quesito riguardo il potere dei documentari – se possano o no aiutarci a capire noi stessi e gli altri – è cruciale, perché ci parla della conoscenza. Come ha detto Sergei Loznitsa, vincitore del premio IDFA per il miglior film con Mr. Landsbergis: “La più grave malattia è la paura: è pericolosa per quelli a cui manca la conoscenza, e rende loro difficile trovare un posto nel mondo”.

Perciò, sono andato all’IDFA per cercare di capire se questo festival ha della conoscenza da condividere, che venga dalla voce delle persone che lo popolano o dai film che sono proiettati durante le sue due settimane.

Ho portato con me il mio sketchbook, il mio quaderno per schizzi, per realizzare un drawcumentary, un documentario disegnato, e andare oltre le facce mascherinate e le sale a capacità ridotta. Per usare il mio medium e capire questo festival.

Il mio kit l’ho tenuto leggero, portatile, facile: matita di grafite piena, penna Micron 0.5, gomma pane, e pennello ad inchiostro, base acqua, verde elettrico, ottimo per campiture di colore dal gusto tecnologico.

Ho poi identificato una lista di film importanti per me. Si tratta di titoli che toccano temi e problemi cruciali per l’Europa. Alcuni indagano storie personali, di geografie specifiche, altri raccontano importanti eventi storici, e tutti sembrano trascendere i limiti del quando e del dove, rivolgendosi ad un pubblico ampio.

La mia è stata una ricerca personale, completamente. Credo che ciascuno vada cercando le risposte alle sue proprie domande. Occupandomi delle mie, ho provato a mettere nero su bianco idee e visioni che ci aiutino a navigare questa tempesta.

Ecco com'è andata.

Nous: una storia di integrazione

Nous – "noi" in francese – era il primo film della mia lista. Si tratta di un documentario di Alice Diop, autrice decisamente non nuova a questo medium o al pubblico internazionale.

Questo documentario è una storia di integrazione, o meglio, della fallimento di quest’ultima. E l’opposto di integrazione qui non è emarginazione, ma dis-integrazione. La disintegrazione, lenta e dolorosa, del tessuto sociale di Parigi, dove le masse sono spinte ai margini della città.

Noi viviamo le nostre vite, nei sobborghi, mentre il centro, che è anche l’alto, l’elevato, il vicino a Dio, glorifica il passato.

C’è una scena girata in una chiesa parigina. Si celebra una messa per commemorare gli ultimi giorni di Luigi XVI, ultimo monarca francese. In una lettera, letta ad alta voce dal sacerdote, il re decaduto perdona la folla becera e violenta che l’ha imprigionato, dichiarando che, se ha fatto soffrire qualcuno, non ne aveva certo l’intenzione. I partecipanti alla messa sono quasi tutti bianchi e anziani, e tutti assieme, in lenta processione, si addentrano nelle catacombe sotto la chiesa, seppellendosi vivi mentre, di fuori, la vita continua.

L’Europa è innamorata dei suoi riti e delle sue nostalgie di passati splendori, mentre una nuova generazione di europei – perché di questo si tratta, con buona pace di chi non ci vuole credere – cresce attorno un centro che sta perdendo il suo significato, un centro che sta diventando vuoto.

The empty center: vecchi muri, nuovi muri, stessi muri

Da un centro vuoto all’altro. Hito Steyerl ha realizzato questo documentario nel 1998, esaminando il largo tratto di terra che divideva le due parti di Berlino, Est e Ovest, riunificate nel 1989, alla caduta del muro.

È impossibile non notare il filo rosso che collega il muro di Berlino ai giorni nostri. Ho parlato con Steyerl di come il suo documentario sia ancora importante per l’Europa, di come la storia molto spesso si ripeta.

“Negli anni Novanta, il confine dell’Europa era la frontiera Polacca, e ora è la frontiera Bielorussa. E adesso stanno pianificando la costruzione di un nuovo muro. Non se ne discute nemmeno, venticinque anni dopo la caduta di un muro, un altro, molto simile, è eretto senza che nessuno ne parli”.

Steyerl parla, ovviamente, della situazione bielorusso-polacca. Il dittatore bielorusso Lukashenko sta usando i migranti come arma, bersagliando il confine polacco in una rappresaglia contro le recenti sanzioni imposte al suo Paese,  punizione per aver ordinato il dirottamento di un aereo di linea per arrestare un giornalista di opposizione, Roman Protasevich.

La lezione di The empty center sta nel messaggio nefasto che il muro di Berlino porta con sé. All’inizio del documentario un giovane di origine asiatica spiega che, per lui, sarebbe stato meglio se il muro fosse rimasto dov’era.

I problemi dell’Europa non sono finiti con la caduta del muro. Steyerl lo dice nel suo film, “tutto è costruito sulle macerie”, ma anche “confini e limiti si spostano costantemente”. Non spariscono a colpi di martello.

Il fronte interno: post-industriale, post-impiegatizio, post-welfare

Ho avuto l’opportunità di fare una lunga chiacchierata con Paola Piacenza, autore de Il fronte interno: un viaggio in Italia con Domenico Quirico.

Quirico è stato inviato di guerra per gran parte della sua carriera e in questo documentario si sposta su un altro fronte, nel suo paese d’origine – che è anche il mio – l’Italia. Non ci sono guerre lì, almeno non nel senso stretto del termine, ma Piacenza e Quirico vogliono mantenere lo stesso approccio e confrontarsi con l’Italia come fosse una zona di conflitto.

Ne esce un viaggio intenso attraverso una nazione difficile, un “fronte interno” vero tanto quanto vero è il senso di abbandono che si prova quando Quirico si aggira per i capannoni dello stabilimento FIAT Mirafiori, a Torino, un tempo fiore all’occhiello dell’Italia industrializzata.

Post-industrializzazione, in questo documentario, significa anche post-educazione, post-realizzazione, post-impiego e, tristemente, post-welfare.

“Ho chiesto a Paola se questo documentario lo si potrebbe realizzare in un altro Paese europeo.

“Certamente”, ha detto. “Il problema della povertà c’è ovunque. Ieri una persona dal pubblico mi ha chiesto come mi sento a mostrare un documentario in un Paese ricco come i Paesi Bassi, ma sono certa che anche qui ci sono sacche di povertà. E infatti a fine proiezione ho parlato con un regista olandese che mi ha detto che sta realizzando un documentario proprio su questo”.

“Penso che l’importante è che vengano poste delle domande più che dare delle risposte. Ho visto la reazione della prima sala che vedeva questo lavoro: avevano veramente curiosità di saperne di più, ed era un pubblico prevalentemente europeo”.

Trenches: l’ultima guerra europea

Questo documentario l’ho dovuto guardare da casa, quindi non l’ho potuto disegnare – non sarebbe stato nello spirito del mio reportage – e non ho nemmeno potuto parlare agli autori. Ma ho voluto includerlo comunque, perché è molto bello e soprattutto perché tocca temi di grande importanza.

Trenches ci porta nelle trincee della guerra combattuta al confine Ucraino con la Federazione Russia, tra le truppe Ucraine e quelle separatiste, supportate dal governo di Vladimir Putin. Loup Bureau, l’autore del film, segue un manipolo di soldati al fronte nei pressi di Donbass, e con loro condivide momenti di noia, speranza, paura, e anche un po’ di politica.

Il sergente della squadra spiega come la pensa: “La Federazione Russa tira le fila, e noi possiamo solo chiedere agli stati dell’Unione europea di aiutarci, di mettere pressione sulla Russia. Ma i politici europei sono degli stronzi senza alcun potere [...] Perché sollevano le sanzioni? Perché si impegnano a dialogare? Il motivo è sempre lo stesso: sono tutti a caccia di denaro”.

Il conflitto russo-ucraino è l’ultima guerra combattuta sul suolo europeo. È cominciato nel 2014, e ha già fatto 15.000 morti, tra cui 3.500 civili. Spesso ci dimentichiamo che la guerra, quella vera, fatta di fucili, granate, carri armati, ancora non ha lasciato l’Europa.

Conclusione: la risposta alla mia domanda

Questo drawcumentario è stato una esperienza intensa.

Ho guardato film potenti, mi sono confrontato con storie e realtà difficili da accettare come parte dell’Europa contemporanea. Eppure fanno parte delle nostre vite, e dobbiamo farci i conti. Ho anche avvertito una certa strana resistenza, dentro di me, devo ammetterlo. Probabilmente viene dal fatto che sono anche io innamorato di una certa idea del mio continente: dopotutto sono in maschio bianco italiano con una laurea in Filologia e Critica Letteraria.

Eppure sento di aver imparato qualcosa. Pezzetti di conoscenza mi sono stati dati dai documentari e dalle persone con cui ho parlato. Perciò, voglio concludere questo reportage con due frasi che penso riassumano bene ciò che ho scoperto.

Orwa Nyrabia, direttore artistico dell’IDFA: “La realtà è complessa, ma anche soverchiante, e il nostro mondo non è fatto di bene e male, ma di un’infinità di bene e di male. Qualunque cosa possa aiutarci a capire la realtà in cui viviamo è importante”.

Paola Piacenza, autore de Il fronte interno: “I documentari mettono il dito nella piaga, ed è quel che ci serve. L’overdose di immagini di bassa qualità, stereotipate, offende il nostro occhio e ci priva del nostro spirito critico”.

Scene tagliate

Ho disegnato più di quanto potesse entrare in questo articolo, perciò eccovi uno slideshow delle scene che, in gergo cinematografico, ho dovuto tagliare.


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