La guerra in Bosnia-Erzegovina (1992-95) ha causato più di 100mila morti e ha lasciato un paese esangue, fisicamente e moralmente. Gli accordi di Dayton, che hanno messo fine alla guerra, hanno posto il paese sotto la sorveglianza di due organismi internazionali: il Consiglio di implementazione della pace e l'Ufficio dell'Alto rappresentante per la Bosnia-Erzegovina.
Quest'ultimo ha i poteri di uno zar: può abrogare o imporre delle leggi, destituire i parlamentari, revocare i giudici e rivedere le loro decisioni. E questo dopo ben 16 anni la fine della guerra. È lecito domandarsi se tutto ciò sia positivo o negativo.
Nel giugno 2007, Miroslav Lajčák, brillante diplomatico slovacco, è stato nominato Alto rappresentante. All'epoca Lajčák aveva ribadito la sua determinazione nel portare i bellicosi politici bosniaci sulla strada delle riforme, avvicinare il paese all'Europa e ristabilire l'ordine, anche se si fosse reso necessario sbattere i pugni sul tavolo.
Tanto fumo, poco arrosto
Prima di lui, il posto di Sarajevo era stato occupato dal tedesco Christian Schwarz-Schilling, che però non aveva praticamente fatto nulla, convinto che un intervento straniero sarebbe stato controproducente per la Bosnia. Del resto, l'incarico era sul punto di essere soppresso e Schwarz-Schilling avrebbe dovuto essere l'ultimo Alto rappresentante. Tuttavia, la situazione non è migliorata e a questo si è aggiunta la dichiarazione di indipendenza del Kosovo (nel febbraio 2008), che rischiava di minacciare gli equilibri della regione. Di conseguenza, si è deciso di mantenere lo status di "High Representative" e di nominare dunque Lajčák.
Lo slovacco è riuscito a convincere il parlamento bosniaco a votare la riforma della polizia, ha ottenuto anche dalla Bosnia la ratifica degli Accordi di Associazione e Stabilizzazione con l'Europa, il primo passo verso una vera adesione all'Ue. Ma finora i progetti di riforma della costituzione sono falliti. Nel marzo 2009, l'austriaco Valentin Inzko ha preso il posto di Lajčák. Ma anche lui non è ancora riuscito ad avvicinare le posizioni contrapposte dei politici locali.
Un'eccessiva dipendenza da Bruxelles
"Per me l'unico che è riuscito a fare davvero qualcosa è stato Paddy Ashdown", afferma Tija Memisevic, una ricercatrice di 35 anni che ha fondato lo European Research Centre, un think-tank di Sarajevo. L'inglese Ashdown è stato Alto rappresentante fra il 2002 e il 2006.
"Ashdown è un uomo politico e non un diplomatico. Inoltre, viene da un paese che di fatto se ne infischia di quello che pensano la Germania, la Francia e Bruxelles. Anche se non è stato sempre accorto, Ashdown ha saputo utilizzare pienamente i poteri che gli erano stati conferiti. I suoi successori, dei diplomatici di carriera, guardano sempre a Bruxelles e cercano il loro consenso. E poiché nell'Ue non esiste una posizione comune, qualunque passo in avanti dura degli anni e nel frattempo ci troviamo nel caos più completo", spiega la ricercatrice.
I critici di Ashdown affermano che in Bosnia l'inglese si è comportato come un raj, il viceré delle Indie britanniche, e del resto questo era il soprannome che gli era stato affibbiato. Ma Tija sostiene che, di fronte a una situazione del genere, non c'era altra soluzione. Tija è convinta che con i semplici mezzi che il suo paese ha a disposizione, la Bosnia non può uscire dalla spirale dei conflitti: serve una figura esterna capace di battere i pugni sul tavolo.
Il tempo è dalla parte della Bosnia
Ma oggi chi potrebbe essere questa figura esterna? Gli americani, che hanno svolto un ruolo decisivo in Bosnia negli anni del dopoguerra? Improbabile, per loro i Balcani non sono più una priorità. L'Ue? In teoria sì. Bruxelles ripete di essere interessata alle sorti della Bosnia, e Sarajevo continua ad affermare che il futuro in Europa è una priorità.
Ma le cose non sono così semplici. In Bosnia molti hanno l'impressione che l'Ue non abbia fatto nulla di significativo per il loro paese e che, in fin dei conti, non abbia neanche l'intenzione di fare qualcosa. Molti pensano inoltre che l'Ue sia troppo debole con la Russia, tradizionale alleato dei serbi. A sua volta, Bruxelles afferma che Sarajevo non può aspettare che l'Ue risolva tutti i problemi per lei; rimprovera ai responsabili politici bosniaci di voler avviare le riforme, di non volere veramente la riconciliazione e di non adottare misure concrete per cambiare lo status quo.
Ma esiste veramente una soluzione? Certo, perché il tempo lavora in favore della Bosnia. Basta guardare i casi di Serbia e Croazia. Nonostante le difficoltà e il nazionalismo mai scomparso, il presidente serbo si è scusato per il genocidio di Srebrenica, mentre i croati hanno eletto un pacifico giurista-musicista alla presidenza del loro paese, che non ha difficoltà ad ammettere che vi sono stati dei criminali di guerra croati. (Traduzione di Andrea De Ritis)