Idee Dopo il referendum nel Regno Unito

Tre lezioni della Brexit che possono rafforzare l’Ue

Dopo la decisione britannica di lasciare l’Europa unita, l’Ue a 27 deve trovare strategie per recuperare popolarità e prosperità. Una più stretta cooperazione in tema di difesa e un Parlamento dell’Eurozona potranno favorire la ripresa dell’Unione?

Pubblicato il 13 Ottobre 2016 alle 09:19

Col referendum sulla Brexit, il Regno Unito, la seconda economia più importante d’Europa e ancora una notevole potenza militare, ha deciso di lasciare l’Unione europea. I politici e gli opinionisti di tutto il continente si stanno ora impegnando a dar risposte a domande complicate: Come è potuto accadere? Che cosa significa per l’Europa? E quest’ultima come può recuperare la sua popolarità e prosperità, e di conseguenza trovare la via della ripresa?

Prima lezione: L’Ue è diventata il capro espiatorio per le politiche britanniche sull’immigrazione

Non si dovrebbero ingigantire le difficoltà dell’Ue. Come dimostra l’ultima edizione del progetto Sustainable Governance Indicators (SGI) della Fondazione Bertelsmann, i paesi europei continuano a vantare le prime posizioni in classifica per quanto riguarda la giustizia sociale. I paesi dell’Unione occupano sette dei primi dieci posti della classifica, sia per quanto concerne le politiche economiche, sia per la democrazia politica.
Ovviamente le performance dei paesi europei sono molto diverse fra loro, ma la media europea per molti indicatori socio-economici e di governabilità non sono per niente paragonabili a quelli di altri paesi sviluppati, come Stati Uniti e Giappone. Anche dopo il referendum, il relativo successo del Nord Europa e del “Cuore d’Europa”, guidato dalla Germania, continueranno a rappresentare poli d’attrazione per quei paesi della regione che cercano di raggiungere simili livelli di prosperità e buongoverno.

Il Regno Unito è uno dei paesi europei più benestanti. Non è membro dell’Eurozona e vanta una ripresa economica relativamente positiva. Dunque non è stata una mancanza di crescita a guidare il sentimento anti-Ue. Il voto per la Brexit, infatti, è stato largamente interpretato come un voto coerente con l’identità nazionale in Inghilterra e nel Galles, in un contesto caratterizzato da disuguaglianza economica, frammentazione sociale e allontanamento dei cittadini dall’establishment dominante di Westminster. L’Ukip (United Kingdom Independence Party) ha apertamente fatto appello alle paure identitarie col suo famoso manifesto"Breaking Point”, criticando l’Unione per l’eccessiva immigrazione.
È vero che, finché il Regno Unito è membro dell’Ue, tutti i cittadini europei hanno il diritto di trasferircisi e una significativa quantità di loro hanno approfittato di questa opportunità. Tuttavia, è importante sottolineare che i britannici non fanno parte dell’area di libera circolazione di Schengen e che l’immigrazione in Regno Unito di cittadini extracomunitari non è gestita dall’Unione nella stragrande maggioranza dei casi. Infatti, due terzi degli immigrati verso il Regno Unito negli ultimi anni provenivano da paesi al di fuori dell’Ue, e di conseguenza si tratta di un fenomeno che riguarda in gran parte la politica britannica, non quella europea.

Inoltre, e questo segna un elemento positivo per il futuro dell’Unione, britannici ed europei sono generalmente più disposti ad accettare l’immigrazione di altri cittadini dell’Ue piuttosto che accettare i non-europei. Questi ultimi, con le loro grandi differenze culturali e religiose, in passato hanno spesso incontrato più difficoltà ad integrarsi nelle società europee.
Un recente sondaggio di Eurobarometro ha rivelato che “quasi sei europei su dieci (il 58 per cento) sono favorevoli alla migrazione di persone da altri stati membri dell’Ue. Tuttavia, all’incirca la stessa percentuale esprime un parere negativo a proposito dell’immigrazione di cittadini extracomunitari.” I dati sono simili fra i cittadini del Regno Unito: il 49 per cento dei britannici si dice “abbastanza o molto favorevole” all’immigrazione dai paesi membri dell’Unione, mentre il 53 per cento si definisce “abbastanza o molto contrario” all’immigrazione da paesi al di fuori dell’Ue.
Queste due realtà - che buona parte dei migranti verso il Regno Unito sono extracomunitari e che i britannici accettano più volentieri l’immigrazione da dentro l’Ue rispetto che da fuori - ci suggeriscono una bizzarra conclusione: l’Ue è stata la vittima dei danni collaterali, addirittura il capro espiatorio, per la frustrazione dell’opinione pubblica inglese verso le politiche nazionali riguardanti l’immigrazione extra-comunitaria.

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Seconda: La Brexit è il segnale che l’Ue non seduce più

Un’altra realtà è che se l’élite britannica ha usato il referendum per scommettere sull’appartenenza all’Unione, questo è accaduto perché non la consideravano un partner così attraente da essere disposti a far di tutto per conservarlo. Infatti, la quota del Pil mondiale prodotta dall’Ue diminuisce costantemente da decenni.
Fra il 1999 e il 2014, la quota dell’Unione europea sull’export britannico è calata dal 54,8 per cento al 44,6 per cento. In altre parole, la classe dirigente britannica ha ritenuto che il Regno Unito potesse cavarsela bene coltivando relazioni col crescente e spesso fiorente mondo non europeo.
Tutto questo per trasmettere un messaggio preoccupato agli europei: senza un cambio di rotta decisivo nelle politiche e nelle prospettive sociali, l’Europa proseguirà il suo declino relativo se non assoluto, diventando marginale nelle questioni globali e incapace di decidere il proprio destino.
Come minimo, l’Europa unita ha bisogno di recuperare attrattiva economica trovando soluzioni durature per risolvere la crisi dell’Eurozona. È vero, l’instabilità quotidiana non è più una caratteristica fissa dei paesi della moneta unica e sono state fatte grandi conquiste. Cipro, Slovenia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia hanno assistito a sostanziali miglioramenti nelle loro situazioni economiche, come evidenziato dall’Sgi, che mostra sia l’efficacia delle riforme economiche nazionali sia il miglioramento nella governance dell’Eurozona in quanto insieme unico.
Per il momento tuttavia, tutto questo rischia di rimanere troppo limitato e troppo tardivo. La ripresa è stata debole e fragile, e potrebbe ancora rivelarsi insostenibile. Il fattore tempo è fondamentale nel momento in cui l’Europa deve affrontare, dal punto di vista economico, non soltanto un decennio perduto sin dal 2008 ma forse alcuni decenni, dato che la forza lavoro diminuisce a causa dei baby boomers senza figli che vanno in pensione.
Inoltre, mentre la nuova governance dell’Eurozona ha portato notevoli miglioramenti del quadro economico, essenzialmente attraverso il rafforzamento delle regole sulle spese in disavanzo e l’aumento di potere affidato alla Banca centrale europea (Bce), al contempo ha aggravato il deficit democratico dei paesi della zona euro. I rappresentanti politici eletti a livello nazionale hanno meno voce in capitolo sui conti pubblici del loro paese e gli osservatori lamentano da tempo la mancanza di una vigilanza democratica legalmente vincolante da parte della Bce.
Sarà necessaria una sorta di definitivo compromesso nell’Eurozona (in particolare fra nord e sud) se sarà chiamata ad affrontare queste sfide. L’economista Thomas Piketty ha suggerito la creazione di un Parlamento dell’Eurozona che possa decidere con una maggioranza democratica sulle questioni di politica economica come la riforma del mercato del lavoro e i livelli di deficit. Questo, unito alla creazione di una Tesoreria dell’Eurozona e all’istituzione di garanzie contro procicliche spese in disavanzo, assicurerebbe il rapido rifinanziamento dei governi e la costante riduzione del debito. Ma ottenere tutto questo, che presuppone chiaramente una serie di modifiche dei trattati, è più facile a dirsi che a farsi.

Terza lezione: La Brexit è un’opportunità per la difesa europea

L’uscita del Regno Unito cambierà drasticamente la natura dell’Unione. Le conseguenze economiche saranno notevoli, ma ne trarremo anche dei vantaggi.
Londra tradizionalmente ha sempre sperato di ridurre l’Europa a una vasta area di libero mercato. Per questo motivo i governi britannici hanno sempre cercato di limitare l’integrazione politica e hanno spinto per l’aumento del numero di paesi appartenenti all’Unione.
Ora, senza il Regno Unito, dovrebbe essere più semplice progredire su molte aree politiche, in particolare sulla difesa: gli altri leader europei hanno colto la palla al balzo avanzando coraggiose proposte sul tema. L’Italia ha recentemente suggerito la creazione di una “forza europea multinazionale” come parte del pacchetto “Schengen della difesa”, pensato per combattere il terrorismo e tranquillizzare le aree di crisi. Anche in Europa centrale i leader hanno invocato la nascita di un esercito europeo, nonostante il fatto che in questo caso l’enfasi sia differente dato che riflette le necessità regionali.
In realtà, sin dal fallimento nel 1954 della Comunità di Difesa europea, le iniziative militari comunitarie sono state numerose quanto inconcludenti. Il problema resta la sovranità: nessuno propone di nominare un comandante in capo europeo, analogo al Presidente Usa, per organizzare l’uso delle forze armate. Di conseguenza, ogni schieramento di truppe dipende dal benestare di tutti i Paesi coinvolti e dalla decisione nazionale sulla delega alle forze dell’ordine nazionali, il che ci riporta al punto di partenza.
In ogni caso, un esercito unico europeo potrebbe essere verosimilmente creato in occasione di missioni su cui si trova un ampio consenso. Gli europei oggi ritengono l’immigrazione e il terrorismo i problemi più urgenti che l’Unione debba affrontare.
Le guardie costiere e i servizi d’immigrazione italiani e greci sono sopraffatti dagli arrivi e hanno bisogno dell’assistenza europea. Questo è una causa attorno alla quale, probabilmente, si potrebbe trovare consenso e riconciliare gli Europei, il nord con il sud e l’est con l’ovest. Non c’è dubbio che la vista della bandiera europea issata sulle navi militari e della guardia costiera, magari composte da soldati e marinai provenienti da Paesi diversi ma impegnati a difendere tutti gli europei, contribuirebbe in modo determinante a riconciliare i cittadini con la loro Unione.
Le sfide che l’Europa si trova a dover affrontare sono chiaramente troppo grandi per essere vinte soltanto con questi provvedimenti. Gli europei dovranno domandarsi in modo profondo se vogliono prendere le decisioni necessarie per arrestare il declino e rendere prospere le loro società. I leader dell’Ue, dal canto loro, hanno bisogno di riflettere sulle strategie per riconciliare l’Unione coi suoi cittadini.

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