La guerra della Russia contro l'Ucraina, e in particolare il coraggio e l'eroica determinazione degli ucraini nel difendere la loro patria, hanno suscitato un vivo interesse per concetti e fenomeni quali il sacrificio, il coraggio e la libertà politica. Come possiamo spiegare questa determinazione nel caso degli ucraini e la sua mancanza nel caso degli europei? L'Europa ha la capacità intellettuale e il vocabolario adatto per cogliere l'essenza del sacrificio?
Alcuni dubbi in merito sono stati espressi dal famoso filosofo tedesco Jürgen Habermas che, due mesi dopo l'invasione su larga scala dell'Ucraina da parte della Russia, ha scritto che gli europei, pur ammirando la determinazione e il coraggio degli ucraini, non riescono a empatizzare del tutto con loro perché sono in preda a quella che ha definito “mentalità post-eroica”. È l'eco di un'argomentazione che Habermas usò molto tempo fa, sostenendo che “la morale illuminista fa a meno del sacrificio”.
In un universo di pura razionalità, in cui agenti ugualmente razionali si incontrano per deliberare e cercare compromessi, non c'è più bisogno di conflitti, lotte, assunzione di rischi, azioni eroiche, decisioni radicali e situazioni in cui tutto diventa una questione di vita o di morte.
Questo è il motivo per cui è così difficile per molti in Occidente rispondere alla chiamata ad assumersi le proprie responsabilità e apprezzare pienamente il significato più ampio del sacrificio dell'Ucraina. Cosa impedisce di identificare il fenomeno del sacrificio e la sua portata morale-esistenziale? Come spiegare l'attuale disallineamento tra le élite politiche dell'Europa occidentale e dell'Europa centro-orientale?
Molti in Occidente si sono impigriti dopo la caduta del Muro di Berlino e la dichiarazione di Francis Fukuyama che la fine della storia era stata raggiunta. Le élite occidentali hanno visto la democrazia liberale come l'apice ineguagliabile dello sviluppo umano, l'ultima tappa nella marcia del progresso, e di conseguenza la storia e la politica sono state volutamente abolite a favore dell'economia, del commercio, del diritto internazionale e della morale astratta. Non era più necessario prendere decisioni o fare sacrifici. In quest'epoca post-storica, le persone non hanno nemmeno più bisogno di coltivare le virtù “tradizionali”, soprattutto il coraggio: perché mai dovrebbe servire il coraggio in questo paradiso post-storico?
L'Europa intera è vista come un grande spazio sicuro dove si incontrano solo liberali che la pensano come noi, al massimo avversari rispettosi che si ascoltano a vicenda e aspirano a trovare un terreno comune, e alla fine cercano il consenso. In questa rappresentazione della realtà sociale non solo la politica e la storia diventano obsolete, ma anche il significato di libertà cambia inevitabilmente: diventa slegato dalla responsabilità.
La libertà diventa solo negativa: non toccatemi, non interferite, state lontani da me, sto perseguendo i miei interessi e nessuno può dirmi nulla. Questo è il motivo per cui in Lituania, e in molti altri paesi europei, è ancora molto difficile parlare di coscrizione: la gente crede che qualcun altro si sacrificherà per la patria in tempi di crisi; perché dovrei farlo io? Come può lo stato presumere di avere il diritto di strapparmi alla mia vita e “rovinarmi la carriera”?
Il dono dell’Ucraina
La prevalenza di questa visione egocentrica del mondo conferma il fatto che stiamo perdendo il senso della libertà positiva: non la libertà da, ma la libertà di, la libertà di fare qualcosa di significativo, di prenderci cura di questo nostro mondo, di agire in modo responsabile, di costruire e pensare al futuro. Credo che sia proprio questo il dono che oggi l'Ucraina fa a tutti noi: un'occasione unica per tornare a essere agenti storici e responsabili, per rispondere alla chiamata della responsabilità, per diventare attori impegnati invece che spettatori passivi e spaventati o, peggio, consumatori indifferenti.
In questo contesto, vale la pena tornare alla ricca filosofia morale e politica di due pensatori fondamentali del Ventesimo secolo: la filosofa ebrea tedesca Hannah Arendt e il pensatore ceco Jan Patočka.
Arendt è nota per il suo tentativo di recuperare il concetto originale di politica, derivante dalla parola greca polis, che si riferisce a una forma unica di vita politica sviluppata dagli antichi ateniesi. Era uno stile di vita incentrato sulla partecipazione attiva dei cittadini agli affari quotidiani della città. Gli ateniesi crearono uno spazio pubblico dove potevano incontrarsi alla pari e discutere tra loro, convincersi a vicenda e progettare il loro futuro comune. In questo spazio regnavano sovrane la parola e la persuasione, anziché la violenza e la manipolazione. Atene pagava persino i cittadini per partecipare alla vita politica e per far parte delle giurie.
Non solo avevano elezioni e una costante rotazione dei cittadini nelle varie cariche, ma anche il principio de sorteggio, che dimostrava una grande fiducia in tutti i cittadini comuni (tutti potevano diventare magistrati), un livello di fiducia inimmaginabile oggi. La rotazione e il sorteggio erano espressione dell'idea di Aristotele, secondo cui la democrazia è un regime in cui “tutti i cittadini governano e sono governati a loro volta”. Grazie a questa enfasi sulla partecipazione attiva e sull'impegno diretto in politica, i cittadini svilupparono un acuto senso di responsabilità civica per il mondo nel quale vivevano. Si sentivano parte di un insieme più ampio al quale davano un contributo significativo.
Quando ci si percepisce parte di un insieme più grande, l'autotrascendenza diventa un orientamento esistenziale fondamentale nella propria vita. Ci si protende verso l'esterno, senza restare bloccati nella propria vita privata con i suoi interessi e desideri limitati, ma portandosi costantemente in avanti in un gesto di cura e solidarietà verso gli altri. Come dice Pericle nel suo famoso epitaffio: “Noi, infatti, siamo i soli a considerare un cittadino che non prende parte agli affari pubblici più che inattivo, inutile”.
Hannah Arendt e il coraggio politico
In politica, la nozione etica di autotrascendenza si traduce in coraggio e disponibilità al sacrificio di sé. Di conseguenza, per Hannah Arendt, il coraggio diventa la virtù politica per eccellenza: “Chiunque volesse accedere alla sfera politica doveva prima essere pronto a rischiare la vita, e un amore troppo grande per la vita impediva la libertà, era un segno di certo spirito servile” (1). La responsabilità politica ci chiede di trascendere i nostri interessi privati per il bene del mondo nel quale viviamo insieme.
Nella politica autentica, la preoccupazione per il destino del mondo ha la precedenza sulla soddisfazione dei bisogni biologici, economici o consumistici. Ci vuole coraggio per lasciare la sicurezza protettiva della propria sfera privata e dedicarsi agli affari della città, esponendosi alla luce della sfera pubblica e al giudizio degli altri, compresi gli avversari.
Il dono dell'Ucraina a tutti noi: un’occasione unica per tornare a essere agenti storici e responsabili, per rispondere alla chiamata della responsabilità, per diventare attori impegnati invece che spettatori passivi e spaventati o, peggio, consumatori indifferenti
Ecco perché, come scrive Arendt: “Il coraggio libera gli uomini dalla preoccupazione della vita in ordine alla libertà del mondo. Il coraggio è indispensabile perché in politica la posta in gioco è il mondo, non la sopravvivenza” (2). È una distinzione piuttosto rigida tra vita e mondo, dove la vita è intesa come privata e biologica, e il mondo come intersoggettivo e culturale-politico.
Questa distinzione è molto simile a un'altra distinzione arendtiana tra privato e pubblico. Arendt afferma che per un vero cittadino il destino del mondo è più importante del guadagno personale o della felicità individuale. Si ispira a Machiavelli, che, come scrive, “è più interessato a quanto accade a Firenze di quanto lo sia alla propria anima” (3).
Felicità pubblica contro felicità individuale
Questa forma di autotrascendenza politica dà vita a un sentimento molto particolare che Arendt, seguendo i padri fondatori americani, descrive come “felicità pubblica”. Per gli attori politici, la partecipazione agli affari pubblici non è un peso o una seccatura, ma una forma di piacere che sanno di non poter provare in nessun altro luogo se non in pubblico con gli altri. La felicità pubblica, ancora una volta, si riferisce a qualcosa che non può essere ridotto o assimilato alla felicità individuale. Questo ci pone una domanda oggi: riconosciamo questa nozione di “felicità pubblica”? Mi sembra che oggi più o meno tutti si sentano solo felici individualmente. Questo è un chiaro segno della nostra mentalità depoliticizzata.
Uno dei grandi problemi di oggi è che tendiamo a concentrarci esclusivamente sulle esigenze della vita privata e a dimenticare il mondo e il pubblico. Arendt associa la sfera privata al lavoro, alla sopravvivenza fisica e alla soddisfazione dei bisogni primari, e quella pubblica alla libertà, all'azione, alla parola e alla solidarietà. Nell'ambito pubblico emergiamo come persone uniche che, di fronte a prospettive diverse sullo stesso mondo, si mettono costantemente alla prova e formano così la propria visione del mondo. Questo aspetto può essere spiegato con la categoria ontologica della pluralità: il riconoscimento che il mondo è abitato da persone diverse che portano i loro punti di vista unici.
Come scrive Arendt, l'interesse pubblico è “il bene comune perché è situato nel mondo che abbiamo in comune senza possederlo”(4). In altre parole, il mondo non è dato solo a me, ai miei amici e ai miei compagni, ma è piuttosto creato e sostenuto da una moltitudine di persone che, attraverso la diversità dei punti di vista, stabiliscono il mondo come uno spazio pubblico comune. Questa visione della politica è alimentata non solo dalla pluralità, ma anche dalla natalità, ovvero dalla capacità umana di creare qualcosa di completamente nuovo e inaspettato.
Ricreare uno spazio pubblico
Oggi, in Occidente, molte persone non si sentono cittadini, esseri plurali e natali. La vita contemporanea è costruita sul primato dell'economia, del lavoro, della carriera e del divertimento. Il dominio dei social media e della governance algoritmica ci allontana gli uni dagli altri, dagli estranei e, in ultima analisi, da noi stessi. Per la maggior parte delle persone, la partecipazione pubblica si riduce a cliccare il tasto “mi piace” o “non mi piace” sui social media, al massimo a votare ogni quattro o cinque anni. Siamo diventati spettatori passivi, nel migliore dei casi, e individui apatici e indifferenti, nel peggiore. Ecco perché penso che oggi dovremmo cercare di recuperare la materialità dello spazio pubblico (che si tratti di municipi, consigli, dibattiti pubblici o altro).
Nel mondo online manca l'elemento dell'impegno diretto, faccia a faccia, con i propri simili, che è caratteristico di una conversazione umana. L'impegno diretto, soprattutto se alimentato dalla disponibilità all'ascolto, è una pratica civilizzatrice che permette di far emergere sfumature nel processo di conversazione e di mitigare, alla fine, il proprio fervore ideologico, mentre i tweet e i commenti online tendono a cancellare la presenza di un'umanità reale, e quindi accentuano la lente tribale attraverso la quale guardiamo le parole sugli schermi. Ma come si possa recuperare il lato materiale di uno spazio pubblico nelle circostanze attuali è, ovviamente, una questione aperta.
Il sacrificio di Jan Patočka
Jan Patočka è stato un filosofo che non ha solo parlato del significato del sacrificio nell'era tecnologica, ma ha incarnato in prima persona la morale del sacrificio. Nel 1977, alla fine della sua vita, Patočka decise di correre un rischio e di farsi portavoce del famoso movimento dissidente Charta 77 in Cecoslovacchia. Quando Václav Havel glielo chiese, Patočka esitò un po' a causa dell'età avanzata e della salute cagionevole, ma alla fine ebbe il coraggio di accettare la sfida. Assunse un ruolo di primo piano nel movimento e, nel giro di un paio di mesi, pubblicò in clandestinità due importanti testi che evidenziavano e spiegavano gli obiettivi morali e il più ampio significato spirituale del movimento.
Questi testi anteponevano i principi morali, in particolare i diritti umani, ai calcoli politici, fornendo così una dimensione normativa e morale che mancava nel manifesto ufficiale di Charta 77. La diffusione clandestina di questi scritti da parte del filosofo rafforzò ulteriormente la determinazione dei dissidenti, ma intensificò anche gli attacchi del regime contro di lui. Patočka fu ripetutamente interrogato e dopo l'ultimo interrogatorio, durato circa dodici ore, le sue condizioni di salute si aggravarono rapidamente e lo portarono alla morte nel giro di pochi giorni. Da allora, i dissidenti cechi e i compagni di Charta 77 hanno attribuito una connotazione martirologica alla morte di Patočka, interpretandola come un sacrificio per la libertà e per principi superiori.
Nei due testi per Charta 77 Patočka sostiene con forza che ci sono cose, principi o ideali morali per cui vale la pena morire. Le sue azioni incarnano una circostanza rara nella vita di un intellettuale: la coincidenza di fatti e parole. La retorica altisonante diventa vuota se non è sostenuta e corroborata dall'esperienza e dalle azioni concrete. Come scrive in uno dei testi: “Il nostro popolo è diventato di nuovo consapevole che ci sono cose per le quali vale la pena soffrire, che le cose per le quali potremmo dover soffrire sono quelle che rendono la vita degna di essere vissuta, e che senza di esse tutte le nostre arti, la letteratura e la cultura diventano meri mestieri che portano solo dalla scrivania all'ufficio paghe e viceversa”.
Ciò che importava a Patočka era il fatto che la visione tecnologica del mondo (o, come la chiama lui, “tecnoscientifica”) ci impedisce di riconoscere e apprezzare il significato morale del sacrificio di sé. Da un punto di vista tecnologico, economico o scientifico, il sacrificio è impossibile: è solo un utilizzo delle risorse. Ecco perché oggi in Occidente c'è tanto cinismo nei confronti dell'Ucraina: gli ucraini sono privati della soggettività, considerati solo come ingranaggi, statistiche, piccole pedine in una gigantesca scacchiera geopolitica. I soldati e i cittadini ucraini sono visti come risorse, una riserva di energia accanto ad armi e carri armati.
La “solidarietà degli scossi”
In questo contesto, diventa molto difficile generare quella che Patočka chiama “la solidarietà degli scossi”, la solidarietà di chi soffre insieme, di chi condivide una situazione di fragilità e vulnerabilità, un incontro travolgente e tragico con il male. Questa solidarietà manca quando le persone e le nazioni si preoccupano solo di sé stesse. Ecco perché Patočka e Arendt erano così critici nei confronti della nozione di sovranità: essa crea un'illusione di autosufficienza, di padronanza di sé e di controllo totale. Può solo portare all'egoismo nazionale e a pericolosi sogni di espansione. Arendt sostiene apertamente che la vera libertà può essere sperimentata solo in condizioni di “non sovranità”, o di pluralità.
Purtroppo, nonostante tutti i suoi orrori, la guerra della Russia contro l'Ucraina non ha ancora scosso l'Europa da un punto di vista esistenziale. E parte della colpa pesa ancora una volta sulla tecnologia, in particolare sui mezzi d'informazione globali e sui social media, che sono uno dei principali esempi di tecnologia contemporanea. Quando si vedono al telegiornale i servizi sulla guerra, diventano una routine, una notizia tra tante altre, e poco alla volta ci desensibilizziamo, assumiamo posizioni ambigue e alla fine diventiamo indifferenti. Indifferenza: è un termine etico molto importante. Nel formulare il suo concetto di sacrificio, Patočka dice che il sacrificio è un ritorno della non-indifferenza, all’idea che nella vita ci sono cose superiori e inferiori.
Gli ucraini che incarnano il coraggio, il sacrificio e la fede in certi principi ci offrono la rara possibilità di svegliarci, di scuoterci dalla nostra visione del mondo comoda e abitudinaria
La tecnologia, al contrario, ci fa credere che esiste solo la pura immanenza, la pura orizzontalità, dove nulla conta davvero e tutto è relativo, mentre Peter Pomerantsev una volta disse una frase che è rimasta celebre: “Nulla è vero e tutto è possibile”. Gli ucraini che incarnano il coraggio, il sacrificio e la fede in certi principi ci danno la rara possibilità di svegliarci, di scuoterci dalla nostra visione del mondo comoda e abitudinaria, quella che Patočka chiama a volte “quotidianità”, a volte “schiavitù della vita”. Gli ucraini ci danno la possibilità di saltare dall'anonimato e dalla noia superficiale a un livello di esistenza autenticamente umano, in cui cominciamo a interessarci a qualcosa di più, qualcosa che va oltre la nostra schiavitù verso le cose materiali e il consumismo.
L’Europa, il cavaliere e il borghese
Sono anche fermamente convinto che noi intellettuali abbiamo un compito molto preciso oggi: ascoltare gli ucraini, le voci del popolo ucraino. Bisogna farle sentire il più forte possibile, e bisogna capire cosa ci dicono. Ecco perché voglio concludere con due citazioni di due ucraini famosi. Il filosofo Volodymyr Yermolenko sostiene che l’Europa ha due cuori, due diverse etiche o moralità:
“Una è l’etica dell’agorà. Presuppone un’etica dello scambio. Nell’agorà, cediamo qualcosa per ottenere più di quello che avevamo. Scambiamo beni, oggetti, idee, storie ed esperienze. L’agorà è un gioco a somma positiva: tutti vincono, anche se alcuni cercano di vincere più di altri.
L’altro sistema etico è quello dell’agone. L’agone è un campo di battaglia. Entriamo nell’agone non per scambiare, ma per combattere. Sogniamo di vincere, ma siamo anche disposti a perdere, anche a perdere noi stessi, persino nel senso letterale di morire per una grande causa. Questa non è la logica di un gioco a somma positiva; non può esserci un ‘win-win’, perché una delle due parti perderà sicuramente.
L’Europa si è costruita come una combinazione di agorà e agone. Indossa l’immagine del cavaliere e del borghese. L’eredità culturale dell’Europa è impensabile senza l’etica dell’agone, che si tratti di romanzi medievali con il loro culto della cavalleria e della lealtà, o di drammi della prima età moderna i cui personaggi muoiono per i loro principi e le loro passioni. Ma l’Europa è impensabile anche senza la cultura dell’agorà, della conversazione, del compromesso, della mitezza, dei mœurs doux di Voltaire.”
Yermolenko afferma giustamente che l'Europa di oggi vuole praticare esclusivamente l'etica dell'agorà. Oggi c'è uno squilibrio palpabile tra queste due etiche. L'etica dell'agone, l'etica del coraggio e del sacrificio: questo è ciò che gli europei devono ricordare oggi, dandogli peso e considerazione sufficienti. Senza avere paura di mettere in discussione la mentalità “post-eroica” che definisce l'Europa, come sostiene Habermas.
Voglio concludere con una nota di ottimismo. Il famoso storico ucraino Yaroslav Hrytsak scrive nel suo ultimo libro Ukraine: The Forging of a Nation ("Ucraina: La costruzione di una nazione"): “La storia ucraina fornisce le basi per un ottimismo limitato ma difendibile. Non è unica in questo senso. Basti pensare a Davide e Golia, alle guerre greco-persiane, alla caduta del fascismo e del comunismo, alle storie di Frodo e Harry Potter. Non importa se queste storie sono finte o reali. Ciò che conta è che ci ricordano che il diavolo – nella Bibbia o nella storia – è una creatura patetica. Può distruggere, ridurre in schiavitù e corrompere, ma non può vincere”.
Note
Le citazioni di Hannah Arendt sono liberamente tradotte dall'inglese, e sono contenute nei testi seguenti:
- Hannah Arendt, La condizione umana
- Hannah Arendt, Tra passato e futuro
- Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio
- Hannah Arendt, Diritti pubblici e interessi privati
Questo testo è la trascrizione della conferenza che Simas Čelutka ha tenuto a Vilnius, nell'ottobre 2024, in occasione della conferenza organizzata dalla rivista culturale lituana Kulturos Barai e da Eurozine. Questo articolo è stato pubblicato nell'ambito del progetto collaborativo Come Together.
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