Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.
Dal verbale risulta che i vicini avessero sentito le grida alle 22:37.
A me facevano male le mani, talmente forte lo avevo picchiato. In bocca, avevo il gusto del sangue. Percepivo il sudore sulla pelle, ma iniziavo ad avere freddo. Ho abbassato lo sguardo e visto i miei piedi scalzi sul parquet. Le mie gambe nei pantaloni del pigiama rosa di finta flanella.
Avevo tre pensieri fissi: devo ripassare lo straccio per terra, devo togliermi questa canottiera e metterla in lavatrice, devo farmi una doccia.
Ho ascoltato la sua voce mentre col fiatone indicava la ferita sul palmo della sua mano e gli oggetti sparsi: il tavolino basso di ferro battuto e vetro ribaltato, così come le poltrone, che ora stavano a gambe all’aria contro il caminetto inutilizzabile.
La poliziotta e il poliziotto nel mio soggiorno annuivano alle sue parole, mentre io non avevo il coraggio di guardarli in faccia. “La vuole denunciare?”.
Mi è scappato un risolino, credo, mi scappa un risolino ora che ci penso.
Lui ha risposto di no e io mi sono staccata dal parquet per andare in bagno a lavarmi le mani.
Il poliziotto mi ha seguita, me lo sono ritrovata alle spalle. Ho visto il suo riflesso nello specchio: il giubbotto forse antiproiettile sebbene ora anche questo mi faccia sorridere, un berretto blu, le mani alla cintura come se fossimo stati nel Far West. Probabilmente era proprio così. Quello era il Far West e casa nostra un saloon, con il pianoforte scordato a fianco alla porta d’ingresso, i segni della colluttazione qua e là, le persone estranee accorse a vedere cosa stava succedendo.
Mi sono guardata anche io allo specchio: gli occhi gonfi, le braccia nude rosse dal freddo, al collo non avevo più la collana a piccoli fiori di perline beige che mi aveva regalato mia madre per l’Epifania. Lì per lì non me n’ero accorta, ma nei giorni successivi me l’avrebbe riportata mio marito dopo averla trovata fra le pieghe del grande tappeto a righe rosse e blu che avevamo in salotto. Un gesto di pace.
Mi sono voltata e sapevo di dovermi rivolgere a lui, anziché all’uomo in divisa: “Puoi dirgli di lasciarmi da sola?”. Sono tornata nell’ingresso, ho preso i primi vestiti che ho trovato mentre lui insisteva che sì, adesso mi ero calmata e lui si sentiva al sicuro e potevano andare, no non aveva bisogno di nient’altro. Sono tornata una seconda volta in bagno con i vestiti in braccio, mi sono cambiata, ho preso il computer e sono uscita preceduta dagli agenti.
Quella notte ho cercato di dormire sul divano di una collega che abitava nello stesso quartiere e, mentre mi dirigevo senza fretta verso casa sua e rispondevo ai messaggi preoccupati di mia madre e delle mie amiche, ho avuto il primo dubbio.
C’era qualcosa che non mi tornava. Io avevo chiamato la polizia, cioè ora so che l’avevano chiamata prima i vicini perché avevano sentito “urla di donna e colpi”. Ma dal mio telefono è partita un’altra telefonata, la seconda che hanno ricevuto, quella in cui io chiedevo di mandare aiuto allo stesso indirizzo.
Eppure io ero anche quella rimasta muta infreddolita in un angolo, pregando dio che non mi denunciasse, aspettando di essere lasciata sola per correre a lavarmi, mentre lui spiegava cosa era successo agli agenti. Che erano intervenuti dopo la mia chiamata.
Non la sua, lui non aveva chiamato.
“Dai lascia stare la polizia e vieni qui”, mi aveva scritto su whatsapp la collega.
Quello che segue è il tentativo di rispondere alle domande che mi sono posta camminando nella gelida notte di gennaio, la cronaca dei fatti come meglio li ricordo, ed è anche l’unico buon uso che conosco della vergogna, dei dubbi, del senso di impotenza e dell’ordinaria sete di vendetta che mi accompagnano da quella sera.
Le domande
“Un ufficiale nazista ti chiede se sei ebrea, tu lo sei ma dichiari di no. Sei bugiarda?”
Alla psicologa che mi ha fatto questa domanda ho risposto senza pensarci troppo: “Sì”.
Eppure credo che il messaggio contenuto nella provocazione della psicologa sia stato importante per la mia guarigione, e che possa esserlo anche per altre donne. Lei voleva invitarmi a ricordare sempre che quello che conta sono i rapporti di potere, che le guerre civili esistono soltanto per chi le vede da fuori, che ci si può riconoscere vittime anche senza stare su un altare, che la legge parla chiarissimo se la si vuole sentire.
Lui mi aveva messo per la prima volta le mani al collo, come per strangolarmi e senza il mio consenso, molto prima che ci sposassimo. Nelle rarissime ammissioni, lo avrebbe chiamato “il peccato originale”, riconoscendo di essere stato colto in fallo come un qualsiasi automobilista in divieto di sosta, attingendo al linguaggio biblico non casualmente: ok aveva mangiato una mela, ma era una donna, era lo stress, era sua madre, sua sorella, ero io ad averglielo fatto fare. Quella prima volta perché avevo riso troppo forte mentre i coinquilini dormivano nella stanza a fianco. Stavamo parlando e io ero scoppiata a ridere. Dopo che ha lasciato la presa, sono rimasta impietrita, determinata a occupare meno spazio possibile dal mio lato del letto.
Ci sono stati altri episodi, non li ricordo benissimo, non li ricordo tutti, comunque non ho voglia di elencarli qui.
La sera della polizia era successo che dopo la mia falsa confessione era uscito a prendere aria, “per sbollire”. In un vortice di azioni motivate da niente, ne avevo approfittato per pulire la casa. Anzi per disinfettare. Speravo di eliminare ogni germe, il Covid e tutti gli altri.
Queste cose erano folli, non piacevano né a me né a lui, ma mi sembravano necessarie. Soprattutto non piacevano a lui, che infatti quando è tornato mi ha strappato di mano i detersivi per andarli a buttare via. L’ho seguito in cucina cercando di riprenderli, nell’ostinata convinzione che lavare il pavimento fosse in quel momento di vitale importanza. Mi ha tirata su di peso, tenendomi stretta per impedirmi di muovermi, con la sua mano sulla mia bocca. L’ho morso con tutta la forza che avevo, mi sono liberata, lui mi ha rincorsa, mi sono raggomitolata sul tappeto, mi ha presa per i piedi scalzi e trascinata dicendo di volermi sbattere fuori di casa, ho urlato e mi sono liberata di nuovo, sono corsa a prendere il cellulare e ho chiamato la polizia.
I sentimenti
Secondo l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE), “il femminicidio è la manifestazione più grave della violenza di genere”. “È profondamente radicato ed è una manifestazione degli squilibri di potere nella società, che promuove uno status ineguale tra uomini e donne. Il femminicidio è ampiamente definito come l'uccisione di una donna o di una ragazza a causa del suo genere e può assumere forme diverse, come l'omicidio di donne a seguito della violenza del partner intimo; la tortura e l'uccisione misogina delle donne; uccisione di donne e ragazze in nome dell’’onore’; eccetera.”
Quasi 1 donna su 4 ha subito violenza da parte di un partner intimo o ex. Sono 3,232 i femminicidi dal 2010 al 2021 nei 20 paesi europei che hanno fornito i dati a una ricerca dei giornalisti dell’European Data Journalism Network. Tuttavia, il dato è un segnale di una grave sottostima da parte delle autorità di polizia, poiché i dati Eurostat hanno invece registrato 6.593 omicidi intenzionali di donne nel 2011-2021 (non tutti sono femminicidi, ma molti probabilmente lo sono).
Lo scorso dicembre, la Cassazione ha confermato la condanna a 10 anni per tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia nei confronti di un uomo che litigando aveva afferrato la moglie per il collo e aveva stretto al punto da lasciarle i lividi sulla pelle.
Ho pensato spesso che quello che è successo a me non fosse niente in confronto ad altri casi di botte e oppressione, il che è, per l’appunto, un pensiero. Poi ci sono i sentimenti.
Perché gli eco-investitori si ritrovano a finanziare le “Big Oil”? A quali stratagemmi ricorre la finanza per raggiungere questo obiettivo? Come possono proteggersi i cittadini? Quale ruolo può svolgere la stampa? Ne abbiamo discusso con i nostri esperti Stefano Valentino e Giorgio Michalopoulos, che per Voxeurop analizzano i retroscena della finanza verde.
Vedi l'evento >