Idee Cittadini all’estero ed elezioni europee

Quei 17 milioni di europei senza voce

Chi, tra di noi, risiede in uno Stato membro diverso da quello di origine vive, per definizione, una vita "europea”. Tuttavia, ci sentiamo penalizzati.

Pubblicato il 7 Maggio 2019 alle 09:18

Se fossimo un paese, saremmo più numerosi degli abitanti dei Paesi Bassi o del Belgio, e solo leggermente inferiori di quelli della Romania. In forza di questo numero, avremmo il diritto di eleggere fino a 26 membri del Parlamento europeo alle prossime elezioni. Nei fatti non siamo né un paese, né abbiamo una vera  rappresentanza politica.

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Chi siamo? Siamo i 17 milioni di cittadini europei che vivono in un altro stato membro dell'Unione (compresi i3,7 milioni che vivono nel Regno Unito). Siamo raddoppiati nell'ultimo decennio e oggi rappresentiamo il 4 per cento della popolazione in età lavorativa dell'Ue. Può sembrare un dato irrisorio se confrontato con la situazione statunitense, dove il 41 per cento dei suoi cittadini vive in uno stato diverso da quello di nascita, ma costituisce in ogni caso un dato senza precedenti nella storia del continente europeo.

Questo dato riflette, infatti, la tanto crescente, quanto inosservata, “europeizzazione” delle nostre società, ulteriormente accelerata dalla precarietà del lavoro e dalle ricadute della crisi finanziaria. Inoltre, almeno 2 milioni di cittadini fanno quotidianamente i pendolari alla frontiera, e centinaia di migliaia di lavoratori stagionali si muovono attraverso il continente per svolgere lavori poco qualificati e altrettanto poco pagati. Quindi, rifacendo i conti, siamo 20 milioni di cittadini Ue sparsi in tutto il continente.

Questa dispersione geografica, innescata da decenni di libera circolazione e di apertura delle frontiere, rende imperfetto il nostro censimento. Molti di noi non pensano a registrarsi quando cambiano residenza e spesso vivono in un limbo amministrativo tra paesi. Esiste quindi un’intrinseca complessità bizantina in questa Europa in costruzione.

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Gli esempi variano dal guidatore rumeno di Uber in Belgio con una patente di guida spagnola, al medico greco con una laurea italiana che vive in Germania, o il lavoratore stagionale bulgaro che raccoglie la frutta nel Regno Unito sposato con una moldava.

L'immaginario collettivo ci ritrae come una élite europea, quella felice cerchia di eletti che, avendo magari beneficiato del programma di studio Erasmus, attraversa il continente in cerca di migliori condizioni di vita. Questa convinzione ha portato Theresa May a definire i 3,7 milioni di espatriati Ue che vivono nel Regno Unito 'queue jumping', privilegiati, persone che non rispettano le file e, di conseguenze, le regole. Tuttavia, uno sguardo ai dati effettivi rivela un quadro più chiaro.

Noi, i 17 milioni di cittadini "mobili” dell’Ue, proveniamo da tutti i 28 stati membri, con più rumeni che scelgono di emigrare altrove in Europa rispetto ai tedeschi. Tendiamo ad avere un tasso di occupazione più elevato rispetto alle persone residenti nel paese della nazionalità di origine.

È vero che abbiamo più probabilità di avere una laurea rispetto a coloro che non hanno lasciato il proprio paese di origine, anche se questo varia notevolmente da un paese all'altro: dal 62,5 per cento per i francesi al 16,1 per cento per i cittadini portoghesi all'estero. Ma lo stesso vale anche per quelli all’altra estremità dello spettro delle competenze: i cittadini poco qualificati hanno la stessa probabilità di risiedere all'estero dei laureati (rappresentano il 21,9 per cento della popolazione totale dell'Ue, ma il 24,1 per cento dei suoi cittadini in mobilità).

In media, noi cittadini mobili dell’Unione troviamo più facilmente un lavoro in un altro paese Ue rispetto al nostro paese d'origine, a prescindere dalle nostre competenze. Questa probabilità diventa ancora maggiore nel caso delle lavoratrici donne.

Per riassumere, siamo una realtà molto più complessa rispetto al modo in cui veniamo descritti. Anche se non siamo ancora una comunità stabile e cosciente di sé stessa, il nostro contributo è molto grande, sia a livello economico sia sociale, per le regioni in cui viviamo, oltre che per quelle da cui proveniamo. Eppure, il diritto di rappresentanza politica nel nostro nuovo paese di residenza ci viene tolto, con una sola eccezione: possiamo votare alle elezioni locali.

Naturalmente ognuno di noi ha il diritto di voto per le elezioni del Parlamento europeo, nel paese in cui risiediamo o nel nostro paese d'origine, ma quasi nessuno di noi lo utilizza. Un rapporto dello European data journalism network mostra che solo l’8 per cento di noi si è registrato per votare nel paese di residenza. E una quantità ancora inferiore ha deciso di tornare nel proprio paese di origine di votare.
Questo rivela una scomoda verità: quei cittadini la cui vita è senza dubbio la più "europea" sono i meno rappresentati in Europa a livello politico. Ci sono una serie di ragioni per questo.

In primo luogo, per esercitare il nostro diritto di voto per le elezioni del Parlamento europeo dobbiamo registrarci, ma il tempo per farlo è molto poco. Per un italiano che come me è residente in Spagna è già troppo tardi per votare alle elezioni europee del prossimo mese. Il tempo mi impedisce di votare a Bilbao, dove vivo, a Torino, la città da cui provengo, o a Parigi, dove lavoro.

Le autorità nazionali sono spesso negligenti nel fornirci informazioni riguardo ai nostri diritti e per assicurarsi che sia possibile accedervi. (Il Regno Unito non è da meno: molti cittadini mobili dell'Unione spiegano di avere avuto difficoltà a scoprire in quali modalità possono votare per le elezioni europee).

In secondo luogo, ci troviamo di fronte ad una mancanza di rappresentazione. Per quanto si parli di un dibattito paneuropeo, le elezioni per il Parlamento europeo tendono a essere una raccolta di competizioni elettorali nazionali, in cui i partiti dei singoli stati membri si confrontano tra loro, principalmente su questioni nazionali. Quindi quanto può essere per noi rappresentativo un candidato locale, che non ha mai sperimentato la mobilità, che è, nei fatti, il nostro marchio?

A prescindere da dove io possa votare, che sia nei paesi baschi in Spagna dove vivo, o nel nord Italia da cui provengo, c'è poca probabilità che le mie preoccupazioni siano considerate da un candidato. Il nostro record di bassa affluenza alle urne dimostra che i cittadini europei in mobilità sono in effetti politicamente penalizzati.

Questo potrebbe cambiare se emergessero forze politiche paneuropee, movimenti con un'offerta politica per l'intera Unione potrebbero, infatti, darci una voce e una rappresentanza specifica. Nel frattempo, però, rimaniamo quasi emarginati. Che paradosso: coloro che stanno effettivamente costruendo l’Europa dal basso verso l'alto, con le loro vite e le loro famiglie, non possono indirizzarne il futuro politico.

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