Abbassare i salari non è la soluzione

Secondo il commissario all’economia Olli Rehn per uscire dalla crisi la Spagna dovrebbe ridurre gli stipendi come Irlanda e Lettonia. Ma a ben guardare nei due paesi citati questa misura ha fatto più male che bene.

Pubblicato il 12 Agosto 2013 alle 16:09

C'è speranza. È l'idea che martedì scorso ha voluto lanciare il commissario europeo all'economia. Olli Rehn ha scelto un mezzo inusuale, il suo blog, per diffondere un messaggio ad alta tensione politica: la Spagna non ha di che rassegnarsi a un tasso di disoccupazione abissale e a una crescita anemica. Ma se vuole uscire dal pozzo deve fare grandi sforzi. Grandi come, per esempio, imporre ai lavoratori un taglio generale dei salari del dieci per cento. Il vicepresidente della Commissione europea ha fornito due esempi alla Spagna: l'Irlanda e la Lettonia, "due storie di successo" secondo le parole di Rehn.

Ma se si allarga il campo su questi due paesi, il "successo" di cui parla il finlandese non appare tanto evidente. [[La dura medicina applicata nei due paesi ha portato la popolazione sull’orlo della povertà]] - nel caso della Lettonia al 40 per cento, il secondo tasso più alto nell'Ue - e ha affondato la domanda interna. In cambio, la piccola repubblica baltica è uno dei paesi Ue che sta crescendo più velocemente. Mentre l'Irlanda, dopo una dura recessione e una lieve ripresa, è di ancora sprofondata nella recessione.

"Se tre trimestri consecutivi di riduzione del pil sono un successo, cosa sarebbe un fallimento secondo gli standard di Rehn?", si chiede il professore di storia economica dell'università di Oxford Kevin O'Rourke, che nega anche i presupposti. In Irlanda non ci sono state significative riduzioni dei salari e l'austerità non ha dato risultati. I dati dell'istituto di statistica gli danno ragione: il costo medio per ora di lavoro è rimasto stabile dall'inizio della crisi. "L'unico paese della zona euro che ha sofferto una brusca riduzione dei salari nominali è la Grecia. Se si guarda agli effetti che ciò ha avuto sulla sua economia e sul suo tessuto sociale, bisognerebbe pensare a un'altra strategia.

Dublino è diventata l'allieva modello di Bruxelles - al contrario della ribelle Atene - dato che è riuscita ad addomesticare i suoi conti pubblici dal 2010, quando l'iniezione massiccia di denaro pubblico nel settore bancario ha portato il deficit oltre il 30%.

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La Commissione europea crede anche che l'occupazione, che nel 2012 si ridurrà di nuovo, mostra segnali positivi, con una lenta caduta del tasso di disoccupazione. Nonostante questi miglioramenti e dopo aver seguito per anni le raccomandazioni di Fmi, Commissione e governo tedesco, l'Irlanda è ancora in recessione. E, come assicurava sull'Irish Examiner questa settimana Séan Healy, direttore del think tank Social Justice, "la politica di austerità ha provocato il maggior trasferimento di ricchezza dalle classi medie e basse a quelle alte della storia del paese. I vincitori sono state le imprese, soprattutto le multinazionali, e i cittadini più ricchi".

L'altro esempio offerto da Rehn è invece effettivamente riuscito a uscire dalla profondissima recessione in cui era caduto nel 2009. La Lettonia è stata il paese Ue la cui economia è cresciuta di più l'anno scorso, e si prevede che ripeterà il record nel 2013.

Il tasso di disoccupazione è ancora elevato (quasi il 15% nel 2012) ma le previsioni ufficiali indicano che scenderà presto. Il successo del suo modello ha permesso al passe baltico di accedere al club dell'euro il prossimo 1 gennaio, nonostante l'opposizione della maggioranza dei suoi cittadini, che teme che l'abbandono del lat faccia aumentare i prezzi.

Fin qui le buone notizie. Perché la dottrina ufficiale preferisce ignorare l’alto prezzo pagato dai lettoni. Il governo di Riga ha licenziato un terzo dei funzionari, e quelli che hanno mantenuto il posto hanno dovuto accettare una riduzione del salario fino al 40%. Riga ha tagliato gli aiuti sociali e ha aumentato le tasse. La perdita di potere d’acquisto di tutti i cittadini, non solo dei funzionari pubblici, si è fatta sentire nella domanda interna, che nel 2009 è crollata del 27%.

L'esodo dei disoccupati

La modesta riduzione del tasso di disoccupazione si spiega con la massa di lettoni che ha abbandonato il paese negli ultimi anni. Dal 2000 al 2011 la popolazione si è ridotta del 13%. Oggi la Lettonia ha poco più di due milioni di cittadini, la stessa cifra che negli anni cinquanta. Sorprendentemente, i lettoni non hanno risposto con scioperi e proteste di piazza come in Grecia, ma con rassegnazione. Hanno anche rieletto il governo che ha tirato fuori la mannaia.

“[[Le riforme hanno avuto un costo elevato. Hanno aumentato le disuguaglianze tra le regioni e tra le classi sociali]], riassume Martins Kazaks, capo economista di Swedbank.

A prescindere dal successo o dal fallimento delle ricette applicate a Riga e Dublino, le parole di Rehn hanno suscitato dubbi sulla possibilità di esportare il modello di un paese con due milioni di abitanti come la Lettonia a uno con 46 milioni che rappresenta la quarta economia dell’eurozona, come la Spagna. Fonti Ue spiegano che Rehn voleva solo animare il dibattito sulla situazione in Spagna, “drammatica per milioni di cittadini senza lavoro”, e che non pretendeva assolutamente di trasferire automaticamente le politiche di un paese a un altro.

Ma queste spiegazioni non cancellano l’indignazione che le frasi di Rehn hanno provocato tra i sindacalisti, i partiti e innumerevoli cittadini. Emilio ONtiveros, presidente di Analistas Financieros, individua vari fattori che impediscono di applicare in Spagna le misure di Bruxelles: il livello di indebitamento privato, la caduta del reddito disponibile alle famiglie...

Sul suo blog, Rehn diceva che chi rifiuta automaticamente le due proposte “porteranno sulle spalle l’enorme responsabilità del costo sociale e umano” di avere sei milioni di disoccupati. Se avesse ragione, le colpe saranno ripartite tra molti.

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