Manifestazione contro l'austerity a Lisbona, 2 marzo

Arriva il terremoto

Il 2 marzo più di un milione di persone hanno manifestato contro la politica di rigore. La rabbia sociale continua a crescere e potrebbe presto travolgere un sistema politico traballante.

Pubblicato il 5 Marzo 2013 alle 15:54
Manifestazione contro l'austerity a Lisbona, 2 marzo

Alla fine il 15 settembre non si è trattato soltanto di un caso. Alla fine la situazione non era dovuta soltanto all’imposta sociale unica, alla quale ha fatto seguito un vero e proprio massacro fiscale. Alla fine la stragrande maggioranza dei portoghesi non è più attenta agli sbalzi d’umore del Cds, la democrazia cristiana che fa parte della coalizione di governo, e non si aspetta neanche più che il presidente della repubblica, Aníbal Cavaco Silva, esca dal suo profondo letargo o la cosiddetta opposizione interna del Psd (il partito socialdemocratico del primo ministro Pedro Passos Coelho, centro-destra) reputi che finalmente è arrivata l’ora di agire. Alla fine la popolazione è scesa in strada nel bel mezzo della valutazione della troïka per dimostrare di non essere quel “buon popolo” che uno dei suoi burocrati credeva vivesse qui.

Malgrado l’evidente antipatia per l’intera classe politica, le manifestazioni del 2 marzo non sono state antipolitiche, ma hanno messo ancor più in luce la tristezza e la delusione: proprio come a settembre, quando però non prevaleva ancora la disperazione. Quelle di settembre sono state manifestazioni dal contenuto politico, caratterizzate in tutta la loro simbologia da sentimenti democratici. E già questo, se si tiene conto della situazione sociale e del blocco istituzionale, è straordinario. Forse si può spiegare solo col fatto che la nostra democrazia è ancora relativamente giovane.

Ho detto “ancora” perché se l’opposizione non riuscirà a rispondere adeguatamente a questa rivolta, dando vita a un’alternativa credibile e non limitandosi a preparare un’alternanza o cercando di accumulare favori per le prossime elezioni, il prossimo passo potrebbe essere qualcosa di radicalmente diverso. Sono convinto che se l’anno prossimo apparisse qualcosa di nuovo nello spettro elettorale, capace di entusiasmare e attirare l’attenzione dei portoghesi, il risultato sarebbe sorprendente. Questo “qualcosa” potrebbe essere positivo, ma è più probabile che sia indefinito e pericoloso dal punto di vista politico.

Riflettendo sulle manifestazioni di sabato scorso c’è una cosa che balza agli occhi: l’età dei protagonisti. Si è notata, ancor più che in occasione di quelle del 15 settembre, la presenza di parecchi pensionati. È su di loro che si concentrano tutti i problemi. Il problema di essere nati e cresciuti in un paese socialmente, economicamente e culturalmente arretrato. Il problema di portare, più di altre fasce d’età della popolazione, il fardello di questo ritardo. Le misere pensioni sono una prova schiacciante contro l’idea di cui Passos Coelho vuole convincere il paese, quella secondo cui il nostro è uno stato assistenziale troppo generoso. Tale idea può venire in mente soltanto a qualcuno che conosce il paese unicamente attraverso i corridoi di partito e gli uffici delle aziende dei suoi amici.

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La rivolta dei pensionati

Una delle cose di cui si è maggiormente parlato sabato scorso sono i giovani che emigrano, i giovani disoccupati, i giovani disperati. E ancora, si è parlato di assenza di prospettive future per i più giovani ancora. In una società come quella portoghese, nella quale la famiglia è una specie di stato assistenziale integrativo (se non il principale), i vecchi sono depositari della sofferenza di tutte le generazioni. E sono proprio loro a sacrificarsi di più tra tutti coloro che si sacrificano. Parecchi pensionati scesi in strada a manifestare sabato scorso l’hanno fatto per la prima volta in vita loro. Hanno vissuto la dittatura, la transizione democratica dopo la rivoluzione del 1974 e la democrazia senza mai fare ricorso a questo loro diritto. Soltanto adesso, a oltre 60 anni e dopo quasi 40 anni di democrazia, si sono sentiti in dovere di scendere in piazza.

Stiamo vivendo un periodo di rivolta pacifica, che fa ancora parte del sistema politico così come lo intendiamo e lo conosciamo oggi. Ma tale sistema è entrato in una fase di declino. Se il mondo politico continuerà a non rispondere al paese, sarà il caos. E sarà un caos imprevedibile. Penso, o quanto meno spero, che qualsiasi agitazione si svolga nel solco della democrazia e senza per altro metterla in discussione. Ma dopo due anni di austerità e di povertà potrebbe cambiare tutto. Nella contestazione sociale il cambiamento è già molto evidente. Non è più organizzato né egemonizzato dalle strutture sindacali e partitiche. Non so se questo è un bene o un male, ma è così.

Se l’opposizione non riuscirà a dare corpo a un’alternativa credibile e se il partito più importante della destra portoghese inizierà a perdere pezzi, i primi che ne approfitteranno, siano essi seri o populisti, comici o uomini di stato, potranno scatenare un vero terremoto politico. Il terremoto sociale invece è già in corso, senza che le istituzioni e i partiti accennino a reagire.

Economia

Un’altra ondata di tagli

“I portoghesi sono convinti che il governo stia preparando nuovi tagli alla sanità, all’istruzione e alla previdenza sociale”, ma vorrebbero che a subirli fossero la difesa, la partnership tra pubblico e privato e gli interessi sul debito. Questi i risultati di un sondaggio pubblicato il 5 marzo da Diário de Notícias. Il governo portoghese e la troika di creditori formata da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale, che resterà a Lisbona fino alla fine della settimana per la settima revisione del piano di salvataggio, stanno preparando nuovi tagli alla spesa pubblica per un totale di circa 4 miliardi di euro.
Il 57 per cento degli intervistati crede che i tagli dovrebbero essere imposti piuttosto alle partnership tra pubblico e privato, mentre il 36 per cento vorrebbe una riduzione degli interessi sul rimborso del debito e il 33 per cento chiede una riduzione della spesa nazionale per la difesa.

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