Che cosa stiamo salvando?

Si dice che le crisi offrono l'opportunità di correggere le mancanze dei sistemi politico-economici. Ma la gestione dell'attuale emergenza ha piuttosto aggravato gli errori del passato. Serve una risposta dal basso.

Pubblicato il 5 Ottobre 2011 alle 14:28

Le grandi crisi del capitalismo, ha ricordato di recente il grande sociologo Jürgen Kocka, spesso sono state eventi determinanti per riformare in modo anche radicale il capitalismo stesso. Questa potrebbe essere una speranza, e deve in ogni caso essere un monito: se la crisi dell’euro offre una possibilità di sortire qualche effetto proficuo, occorre coglierla al volo.

Le crisi del passato hanno spianato la strada a cambiamenti strutturali, o quanto meno li hanno accelerati. Le crisi hanno determinato l’istituzionalizzazione dei regolamenti statali, il welfare state e, non ultimo, il paradigma economico keynesiano. Ma gli “effetti proficui” sono scivolati sotto l’influenza di potenti interessi acquisiti. Una delle spiegazioni per l’attuale crisi è che tali effetti siano stati messi all’angolo nella Germania governata dalla coalizione di Socialdemocratici e Verdi, che ha deregolamentato ciò che un tempo era regolamentato e ha abbandonato il livello di redistribuzione che era già stato raggiunto.

La crisi del debito in Europa ha insegnato qualcosa? A quanto pare no. Infatti ciò che è stato rifilato come gestione della crisi a un’opinione pubblica angosciata non ha nulla a che vedere con gli “effetti proficui” di cui ha scritto Kocka. Nella corsa contro “i mercati” per salvare l’euro, i governi stanno soltanto dimostrando chi ha davvero in mano il potere.

Invece di prendere di petto le cause della crisi economica e politica, questa cause sono illustrate e spiegate come soluzioni. Allo stato è rimasta solo l'onere sociale di una crisi finanziaria dei privati. E i bilanci pubblici erano appena stati gravati della spesa necessaria a propagare la ricchezza dei privati che già è stata prescritta un’altra cura per risolvere la malattia ora chiamata “crisi dello stato”.

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Con la crisi, il principio tedesco del debt brake (“freno da debito”) si è allargato a tutta l'Europa. Sarà stato forse grazie alla nota attitudine al risparmio delle casalinghe della Svevia? Macché. “Ciò che non dobbiamo fare”, ha detto la cancelliera Merkel, “è distruggere la fiducia degli investitori”. Le sue parole rivelano la sua fede e dimostrano a che cosa si è ridotto il dibattito europeo: come risparmiare soldi, come tutelare le rivendicazioni sugli asset, come proteggere la competitività.

Quando qualcuno chiede “maggiore passione per l’Europa”, la richiesta in definitiva si riduce semplicemente a qualche sanzione per rendere ancora più rigorosa la disciplina di bilancio, norme inerenti sui default sovrani e così via. Oltretutto, essa non riesce a nascondere gli alterchi della coalizione sulla politica europea. Che il parlamento in futuro sia coinvolto ancora più da vicino nelle decisioni su come salvare l’euro di per sé ancora non dà una risposta alla domanda: “Che cosa stanno salvando i deputati?”.

“Se fallisce l’euro, fallisce l’Europa”, ha dichiarato la cancelliera, propagandando nel mondo intero una minaccia che avrà il medesimo impatto sui parlamentari dei partiti di governo e sui piccoli risparmiatori nonché su coloro che ricevono sussidi, su lavoratori e studenti, su medici e artisti, su pensionati e casalinghe.

La sua dichiarazione nel migliore dei casi è vera soltanto a metà, in quanto si stanno distruggendo le premesse di un’Europa migliore, un’Europa che nelle controversie sul trattato di Lisbona era ancora aperta allo scambio di vedute, che puntava sugli standard sociali e sulla concretizzazione dei diritti fondamentali. Chiunque voglia salvare davvero l’euro, e abbia in mente qualcosa di meglio di un progetto elitario strutturato soltanto in funzione degli interessi economici – con il suo deficit di democrazia, la competitività fiscale e il dumping sociale – ormai deve contrapporsi ai “salvatori” come Merkel e Sarkozy.

Questo è indispensabile perché tramite queste decisioni su come gestire la crisi si va già delineando la futura realtà costituzionale dell’Ue. Dall’altro lato, non sarà così facile, perché un “no” agli aiuti da una società unita potrà essere fin troppo facilmente confuso con l’euroscetticismo populista che si sta diffondendo in questa stessa società. Questi malintesi critici dell’Europa hanno trovato nel tabloid Bild il loro organo ufficiale. Ciò di cui sono tuttora privi, però, è la copertura di un partito politico.

Forze centrifughe

Da quanto risulta da un recente sondaggio, due cittadini europei su tre credono che il mercato unico abbia arrecato vantaggi soltanto alle grandi corporation. Uno su due, invece, crede che l'Europa abbia svilito le condizioni di lavoro e che l’integrazione politica non porti nulla di positivo ai più svantaggiati.

Questo la dice lunga sul tipo di Europa che Merkel e gli altri cercano di salvare. E nondimeno sarebbe sbagliato abbandonare completamente il principio di fondo e lasciare il campo a coloro che vedono una via d’uscita nel marco tedesco, nell'abbandono della solidarietà e nella ristrettezza mentale nazionale.

La posta in gioco è grande: o la crisi dell’euro sarà risolta “dall’alto” e porterà a un regime di austerity assolutistica nell’Ue, che toglierà sempre più spazio e margine di manovra alla politica sul campo e rafforzerà le forze sociali centrifughe che spingono lontano dall’ideale europeo, oppure la pressione “dal basso” costringerà i governi a correggere la loro rotta.

Per questo non basteranno le campagne dei sindacati dei lavoratori. Nessuna crisi ha mai portato “effetti proficui” tramite i soli appelli. Ci sarà sempre bisogno, come ricorda Kocka, di una critica del capitalismo, di un impegno politico, di una mobilitazione sociale. Le critiche hanno già invaso le pagine dei quotidiani, ma non è ancora emersa la consapevolezza che questo non può bastare. (traduzione di Anna Bissanti)

Questo articolo è uscito in inglese sul Guardian in collaborazione con presseurop.eu

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