Beppe Grillo, il populista libertario

Molti considerano il leader del Movimento 5 stelle l'ultimo arrivato nella grande famiglia dei populisti europei. Una categoria eterogenea, che va dai neofascisti ai sostenitori della democrazia diretta.

Pubblicato il 4 Marzo 2013 alle 16:41

La vittoria di Beppe Grillo in Italia ha riacceso le discussioni sul controverso concetto di “populismo”. Su De Morgen, Bert Wagendorp ha lasciato intendere che “a differenza di populisti come Bart De Wever in Belgio, Geert Wilders nei Paesi Bassi e Berlusconi”, Grillo non appartiene a un partito politico già esistente. In altri termini, essendo un outsider a tutti gli effetti, Grillo non sembra rientrare nella grande famiglia populista.

Dicendo ciò, però, Wagendorp dimentica l’importanza dell’ideologia nella definizione di populismo. Secondo una definizione ideologica di questo tipo, Grillo è infatti quasi il prototipo stesso del populista: uno che presenta la classe politica come il nemico del “vero” popolo.

Per questo motivo Grillo non può essere definito semplicemente un populista. Il populismo è un fenomeno polimorfo, che può partire da interpretazioni anche molto diverse del termine “popolo”. In teoria, si possono distinguere due posizioni estreme: da un lato il “popolo” può essere considerato un’unità metafisica e morale che conserva le stesse caratteristiche con il passare dei secoli. Questo popolo deve essere protetto dai nemici e dalle influenze straniere, e può essere incarnato da un leader carismatico.

All’estremità opposta troviamo il criterio secondo cui il popolo è la somma di milioni di liberi cittadini che hanno proprie aspirazioni e progetti e non devono essere ostacolati da regole e leggi non indispensabili. Un populismo che si basi completamente sulla prima interpretazione del concetto di popolo può essere definito fascista. Se si fonda sul secondo concetto è piuttosto di matrice libertaria.

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In pratica tutti i movimenti populisti contemporanei combinano gli aspetti delle due varianti, ma in dosi diverse. Dal nome stesso del partito, per esempio, si potrebbe dedurre che i Veri finlandesi di Timo Soini si avvicinano di più alla prima variante. Questo partito si basa sull’immagine ideale del popolo finlandese, che deve essere preservato dalle influenze straniere come il matrimonio tra omosessuali, la lingua svedese e l’immigrazione. La mobilitazione attuata da questo partito attorno a questi ideali e le misure concrete che esso propone sono tuttavia troppo moderate per potergli dare l’etichetta di “fascista”.

Dal canto suo Geert Wilders ha sottolineato molto più chiaramente l’aspetto libertario del populismo nel nome stesso del suo partito, il Partito della libertà (Pvv). La tolleranza di questo partito nei riguardi dell’omosessualità - considerata parte del patrimonio illuministico - è quindi coerente. Tuttavia il concetto dei “nostri Paesi Bassi” è rappresentato come un’unità mistica, che talvolta deve fungere da schermo nei confronti della “loro Bruxelles” e dell’“ascesa dell’islam”.

Il partito ungherese Fidesz è anch’esso caratterizzato da un’ambiguità di questo tipo. Anche se in origine il nome era l’abbreviazione di Giovani Democratici Liberi, oggi esso rinvia soltanto alla parola latina fides (“fedeltà”). I rom ungheresi sperimentano quotidianamente questa fedeltà ai “veri” valori ungheresi.

Popolo digitale

Rispetto ai suddetti movimenti, il Movimento 5 Stelle di Grillo è molto più vicino al gruppo libertario. È vero che il suo blog e i suoi discorsi sono pieni di riferimenti all’Italia eterna che è finalmente vicina a risorgere, ma al tempo stesso egli si rivela allergico agli eccessi ipernazionalisti come quelli di Timo Soini e Viktor Orbán. É vero che sostiene la necessità di limitare l’immigrazione, ma non per islamofobia o paura di una perdita di valori italiani. Il suo impegno a favore della democrazia elettronica la dice lunga in proposito. Invece di nascondersi dietro leader o simboli, egli ritiene che gli italiani debbano far sentire in massa la loro voce su internet.

Questa classificazione fa sorgere spontanea un’altra domanda: dove si colloca in questo contesto Bart De Wever? Egli si presenta come l’erede di una tradizione basata su una variante etnica del nazionalismo. Per il momento De Wever non sfoggia ancora bandiere con il leone fiammingo, ma vuole far rinascere il suo popolo per creare una comunità più o meno omogenea e con solide frontiere esterne.

Grazie alla dimensione comunitaria, De Wever non è costretto a spacciarsi per populista. Può benissimo definirsi l’esecutore di un processo di formazione nazionale incompiuto, piuttosto che portavoce del popolo contro una classe politica corrotta.

Commento

Il problema è l’Europa, non l’Italia

“Diversamente da ciò che molti pensano, il malato d’Europa non è l’Italia, ma l’Europa stessa”, si legge in un articolo pubblicato da due accademici su EUobserver. Nonostante la penisola sia da sempre caratterizzata da “un sistema disfunzionale, istituzioni inefficaci, corruzione diffusa e disprezzo delle regole generalizzato”, è comunque riuscito a diventare l’ottava economia del mondo, scrivono Francesco Giumelli, professore del dipartimento di studi europei dell’Università metropolitana di Praga, e Ruth Hanau Santini, professore di scienze politiche dell’Università orientale di Napoli. 

L’Italia è una bestia difficile da capire, figuriamoci da domare. Eppure per il processo di integrazione europea è un’àncora, non un iceberg. L’Italia sarà in grado di gestire le sue incertezze interne. L’Europa invece dovrebbe preoccuparsi maggiormente del mancato avanzamento del progetto unione bancaria e di un pacchetto d’austerity che non è stato affiancato dalle necessarie misure per favorire la crescita economica e sociale e rinnovare la fiducia nelle istituzioni europee. Il più grande pericolo per l’Ue viene da questa situazione, non dalle bizzarrie della politica italiana.

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