Idee Zygmunt Bauman sull’Europa e il terrorismo globale

La guerra illusoria

La lotta contro il terrore globale non può essere vinta cedendo al panico o alla tentazione della guerra. L’Europa dovrebbe invece riaffermare i suoi valori fondamentali e proporre soluzioni concrete contro la radicalizzazione dei giovani al suo interno sostiene il celebre sociologo.

Pubblicato il 17 Aprile 2016 alle 19:32

Gli attentati al “cuore dell’Europa” sono stati dunque un successo, come hanno insinuato molti opinionisti (come ad esempio uno dei editorialisti più autorevoli e conosciuti del New York Times, Roger Cohen) dopo i recenti attacchi terroristici di Bruxelles? O dovremmo forse condannare ed evitare queste rappresentazioni simboliche, tanto apprezzate dai terroristi?
Quel “cuore” che i terroristi scelgono, prendono di mira e fanno di tutto per colpire sono quei luoghi che brulicano di telecamere, sempre in agguato come i giornalisti corrispondenti, continuamente assetati di nuove e scioccanti emozioni che gli assicurino alti ascolti per qualche giorno. Un numero di vittime dieci volte superiore, uccise fra il Tropico del Cancro e quello del Capricorno (come in Somalia, Yemen o Mali) non può aspirare allo stesso livello di amplificazione e pubblicità di cui godono New York, Madrid, Londra, Parigi o Bruxelles.
È negli ultimi luoghi citati che i fruscii acquisiscono la forza dei tuoni; per una minima spesa – un biglietto aereo, un Kalashnikov, una primitiva bomba artigianale, e le vite di qualche fuorilegge – un cospiratore alla ricerca di pubblicità può conquistare moltissime ore, giorni, settimane di spazi televisivi gratuiti. Inoltre, permette ai governanti di inferire una nuova serie di colpi ai valori democratici che loro stessi sarebbero tenuti a proteggere, e che i terroristi sono risoluti a distruggere.
Questo è stato il particolare più importante nella strategia del terrorismo globale sin dal principio: data la mediocrità delle loro scarse risorse, i terroristi si concentrano sull’istigazione e la mobilitazione di quelle risorse illimitate seppur estremamente vulnerabili e per nulla infinite del loro nemico giurato. Hanno rapidamente e brillantemente appreso l’arte di trarre profitti derivanti dalla pubblicità e dalla diffusione della paura con una spesa modesta se non addirittura in diminuzione: è ormai realtà che le organizzazioni terroristiche facciano affidamento e scommettano sullo zelo al quale i loro avversari sono obbligati o scelgono di facilitargli il compito e avverarne le previsioni.
I terroristi possono (ahimè, col nostro aiuto) essere sicuri che, a prescindere dal luogo in cui viene commessa l’atrocità, l’eco dei suoi effetti si riverbererà in tutta l’Unione europea. Oggi si può ironicamente affermare che una serie di atti terroristici consecutivi siano il più potente fattore di unità fra i paesi membri di un’Unione che si sta lacerando sotto molti punti di vista. La paura, lo stanziamento di crescenti risorse economiche per costruire muri, finanziare un esercito in espansione di organi di sicurezza e ordinare, acquistare e installare un numero sempre maggiore di mezzi di spionaggio dai costi proibitivi, nella vana speranza di evitare il prossimo attacco terroristico e anche quello successivo: questo non riguarda soltanto i luoghi direttamente colpiti, ma anche posti sperduti nei paesi periferici d’Europa, che i terroristi, avendo attentamente calcolato il possibile rapporto costo/effetti, non hanno intenzione di colpire.
In netto contrasto con l’infame previsione di Victor Orbán, “Tutti i terroristi sono immigrati”, quasi ogni attentatore che opera nel contesto europeo è cresciuto in Europa. Le menti più scaltre, acute e malvagie, che architettano e ordinano o promuovono il prossimo attacco terroristico in tutta sicurezza nelle loro lontane abitazioni, potranno anche vivere in paesi stranieri, ma i loro soldati sono reclutati fra la svantaggiata, discriminata, umiliata e amareggiata gioventù locale assetata di vendetta. Questi giovani fanno i conti con il loro futuro privo di prospettive, su cui ha pesato il nostro contributo, sia esso diretto o indiretto, deliberato o derivante dalla nostra trascuratezza.
Quello che li tiene in questa condizione svantaggiata è il fatto che le questioni sociali che richiedono provvedimenti sociali siano state trasformate in problemi di sicurezza che esigono risposte di tipo militare. Questo è probabilmente il modo principale in cui le nostre autorità cooperano coi terroristi: osservando la legge del taglione invece che acquistare superiorità morale associata a una radicale prospettiva a lungo termine, stiamo continuando ad espandere le zone di reclutamento nelle quali i leader terroristici vogliono pescare a piene mani.
Non essendo capaci di offrire ai loro compagni di fede musulmana un’esistenza dotata di senso (e noi dal canto nostro non ne abbiamo l’intenzione o trascuriamo tale possibilità), i fondamentalisti islamici offrono loro la seconda migliore ricetta, per quanto virtuale possa essere, per recuperare dignità umana e autostima rovinate: un’esistenza significativa. Molti di loro (ma non dimentichiamoci, in difesa dei nostri vicini musulmani, che quei “molti” erano e restano una ristretta minoranza dei musulmani nati e cresciuti nei paesi europei) cedono alla tentazione, dopo aver trovato impraticabili tutte le altre strade tentate verso il raggiungimento della dignità umana.
Troppo spesso nei titoli dei giornali, nei commenti degli esperti invitati negli studi televisivi e nei discorsi dei politici di alto livello leggiamo che siamo in stato di guerra contro il terrorismo. Ma “guerra contro il terrorismo”, per molte ragioni che qui non abbiamo né lo spazio né il tempo di esporre per esteso, non è altro che un ossimoro. Se applicate all’attuale serie di attacchi terroristici e alla nostra reazione, la maggior parte (o forse la totalità) delle metafore riguardanti l’impegno in guerra sono fuorvianti e conducono la riflessione in una direzione sbagliata; queste metafore nascondono la realtà dell’attuale situazione invece di consentirne la comprensione. Nel complesso, ricorrere a metafore belliche nel tentativo di sradicare il terrorismo globale è davvero sconsigliato.
La maggior parte delle guerre divide i combattenti fra vincitori e vinti, fra trionfanti e sconfitti, ma per questo motivo la nostra lotta al terrorismo non può essere classificata secondo le categorie della guerra. Da questa lotta, nessuna parte può risultare vittoriosa, eccezion fatta probabilmente per i produttori, venditori e trafficanti di armi. Il commercio mondiale delle armi (il quale ha in pratica, se non anche in teoria, piena libertà di manovra, ed è governato dall’avidità dei mercanti d’armi in combutta coi governi, sempre alla smaniosa ricerca di un aumento del Pil) ha ormai trasformato il pianeta in un campo minato, in cui sappiamo che le esplosioni possono avvenire al primo movimento maldestro ma non sappiamo prevedere dove e quando potrà esserci tale esplosione.
Le armi pronte per un uso criminale sono disponibili in abbondanza (e come Anton Čechov insegnava agli aspiranti drammaturgi realisti, “se nel primo atto dici che c'è un fucile appeso al muro, nel secondo o terzo atto quel fucile deve sparare”). La scelta dei luoghi da colpire è, dopo tutto, condizionata dalle armi a portata di mano. […]
Sul piano del nostro mondo globalizzato, sminare i campi minati (o, in questo caso, l’altra rappresentazione della categoria del “castello di carte”, ovvero costruire muri con l’intenzione e la speranza di tenere i migranti fuori dai “nostri cortili”) è una proposta che difficilmente diventerà davvero efficace in un prossimo futuro. In confronto, l’intenzione di estirpare il problema alla radice, – ovvero privare gli amanti del terrore e i promotori del lusso di ampi e crescenti terreni di reclutamento di persone forzate o indotte a maneggiare armi per scopi scellerati – per quanto fantasioso possa sembrare, appare di gran lunga più realistica.
L’unica (preoccupante) ragione per aver paura è la possibilità (speriamo remota) che l’Europa abbandoni i valori per i quali s’impegna e si pieghi alla mentalità dei terroristi e al loro codice di comportamento, commettendo così a tutti gli effetti un suicidio in quanto patria della verità, della moralità e della bellezza, e come culla delle idee di libertà, di uguaglianza e di fratellanza.

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