La polizia disperde i manifestanti ad Ankara, il primo giugno.

Erdoğan assediato nella sua torre d’avorio

Perché le manifestazioni contro un progetto urbanistico si sono trasformate in proteste contro il potere del primo ministro? Per un editorialista turco il motivo va ricercato nel rifiuto di Erdoğan di accettare le critiche e nella sua determinazione ad andare avanti a ogni costo.

Pubblicato il 3 Giugno 2013 alle 14:59
La polizia disperde i manifestanti ad Ankara, il primo giugno.

Ascoltando le dichiarazioni del primo ministro dopo l’inizio delle manifestazioni di piazza Taksim, si capisce subito quali sono i problemi che la democrazia deve affrontare nel nostro paese. Recep Tayyip Erdoğan critica tutti: l’opposizione, i manifestanti e anche la polizia che è andata troppo oltre nel ricorso ai gas lacrimogeni. Ma dimentica di criticare la sua azione e quella del suo governo. Anche il governatore di Istanbul è stato risparmiato.

La responsabilità degli ultimi eventi sarebbe quindi da attribuire a funzionari subalterni della polizia. Ma se fosse solo una questione di eccesso di poteri di polizia, in un regime democratico il governo avrebbe già dovuto renderne conto. Tanto più che in Turchia le leggi non regolano precisamente in quali condizioni deve essere utilizzato questo gas. In altre parole il governo, che ha dato alla polizia mezzi così potenti, non si è preso la briga di disciplinare la questione.

Detto ciò, la crisi che è scoppiata nel parco Gezi va molto oltre gli eccessi nell’uso dei gas lacrimogeni della polizia. Si tratta infatti di un vero e proprio movimento di disobbedienza civile, che nasce oggi in seguito alla mobilitazione contro l’abbattimento di alcuni alberi la cui legittimità giuridica è peraltro discutibile [Radikal ha rivelato l’esistenza di un rapporto ufficiale di esperti che delegittima il progetto di trasformazione del parco Gezi]. E in risposta assistiamo a una forma di terrorismo di Stato che nega il diritto della gente di riunirsi e di manifestare.

Erdoğan, che si è chiuso in una torre d’avorio in cui nessuna critica può raggiungerlo, non sembra rendersi conto che i progetti che ha deciso e che ritiene utili per la collettività suscitano invece serie obiezioni in molti settori della società. Non vuole sentirsi dire che questa società non accetta più che tutti i meccanismi decisionali si concentrino nelle mani di un solo uomo.

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Non vuole neanche capire che il controllo dei media, il licenziamento di giornalisti critici, la scelta di un nome per il terzo ponte sul Bosforo che ha profondamente turbato gli aleviti [Ponte Yavuz Sultan Selim, dal nome turco del sultano ottomano Selim I (1470-1520), noto per aver combattuto lo scisma al quale si collegano gli aleviti, sciiti eterodossi dell’Anatolia], le restrizioni molto severe sul consumo di alcol con il pretesto di misure sanitarie e il trattamento violento dei manifestanti del parco Gezi hanno creato l’impressione che tutto sia stato imposto con la forza e che ormai si sia instaurato un regime tirannico.

Il primo ministro vorrebbe che l’assenza di qualunque critica che caratterizza il suo partito si estendesse all’intera società. Non vuole neppure sentire le obiezioni di conservatori, musulmani osservanti e liberali, che peraltro lo hanno sostenuto a lungo. Rifiuta di vedere il profondo malcontento di settori molto diversi della società, che ha provocato l’affermazione del suo autoritarismo. Eppure Erdoğan aveva la possibilità di creare l’unico regime democratico del mondo musulmano capace di destare interesse sul piano internazionale.

Non ha capito che scendere a compromessi con la minoranza, anche se si dispone di una solida maggioranza, non è il segno di una mancanza di potere ma una prova di virtù e che fare mostra di flessibilità quando è necessario non è un segno di debolezza ma di grande intelligenza politica.

Ma anziché fare autocritica, Erdoğan getta benzina sul fuoco e sembra sperare che il movimento di protesta sia strumentalizzato da organizzazioni radicali per meglio screditarle. Dichiarando di voler distruggere il centro culturale Atatürk [Akm, centro congressi, sala per concerti e musica lirica in piazza Taksim] e costruire al suo posto una moschea, il primo ministro spera di ottenere l’appoggio dei musulmani osservanti, ma così facendo rischia di radicalizzare la società e si lancia in un’impresa estremamente rischiosa.

Stampa governativa

“Un’operazione politica”

Dopo un fine settimana di manifestazioni, Yeni Safak ha scelto di dedicare il titolo al “Ricatto della pubblicità”. Il quotidiano filogovernativo spiega che “alcune agenzie pubblicitarie internazionali hanno bloccato la pubblicità di alcuni prodotti su diversi media turchi, con il pretesto che gli eventi di Istanbul danneggerebbero la loro immagine”. “L'impressione è che dietro tutto questo vi sia un’operazione politica”, afferma il giornale.

Yeni Safak parla anche del vandalismo di cui si sarebbero resi responsabili i manifestanti del quartiere di piazza Taksim. Suggerendo la presenza di “organizzazioni illegali”, il giornale pubblica le foto della distruzione di autobus e del saccheggio di lampioni e accusa i manifestanti di “ridere e divertirsi mentre sfasciano tutto”. Il quotidiano parla anche delle aggressioni che sarebbero state commesse da alcuni di questi manifestanti contro donne che indossavano il velo.

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