Opinione Piano europeo di rilancio post-covid

Un piano di portata storica, ma per fare cosa?

I 750 miliardi di euro che dovrebbero aiutare l’Europa a riprendersi della crisi del coronavirus potrebbero avere un forte impatto sul funzionamento dell’Ue stessa. Ma questo richiederà che l’Unione disponga dei mezzi adeguati per raggiungere questo traguardo e immaginare il suo futuro oltre la crisi. L’analisi di Tremeur Denigot.

Pubblicato il 12 Agosto 2020 alle 13:39

“Storico!” La parola è stata ripetuta in continuazione dagli entusiasti sostenitori dell’accordo simbolico raggiunto dal Consiglio europeo sul piano di ripresa e annunciato all’alba del 21 luglio scorso. I detrattori dell’accordo si son fatti subito sentire sostenendo che non è affatto così, coprendo rapidamente tutto quel rosa brillante con un nero profondo e opaco. Tutti fingono di ignorare che le decisioni che emergono dal Consiglio europeo sono in realtà molto più sfumate e policrome.

È delicato fare una valutazione complessiva, eppure è quella che meglio si adatta alla teatralità europea, tanto è vero che sempre più spettatori guardano l'Europa improvvisare nella bufera. Inoltre ognuno dei protagonisti sa che dovrà convincere le opinioni e i 42 parlamenti regionali e nazionali dei 27 Stati membri dell’Ue che voteranno questo piano, quindi tanto vale lasciare il segno e vada per storico.

Tuttavia, l’elenco degli aggettivi per descrivere questo accordo può essere ampliato  a seconda di ciò che viene valutato. Di seguito un possibile elenco.

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Storico, dicevamo

La parola si è imposta perché molti tabù “storici” sono stati decisamente sfatati : 1. Ripartizione del debito (un vecchio obiettivo federalista che fa da “cavallo di Troia” dell’Europa politica secondo i fautori dell’Europa del mercato); 2. Investimenti pubblici massicci (preannunciati dalla sospensione del patto di stabilità e crescita; 3. Europa dei trasferimenti (con sovvenzioni indirizzate soprattutto all’Italia e alla Spagna, i due paesi più colpiti dall’epidemia che erano già “malati” prima e che minacciavano sia l’equilibrio del mercato interno sia quello della zona euro). Questi progressi sono indubbiamente un'ottima notizia oltre che una sorpresa, soprattutto perché solo pochi giorni prima dell'accordo alcuni degli Stati "frugali" (Paesi Bassi, Austria, Danimarca e Svezia, raggiunti dalla Finlandia durante il Consiglio) dicevano ancora di non voler sentir parlare di ripartizione del debito.

Proporzionato

La Commissione prevede che l’economia dell’Ue registrerà una contrazione di oltre il 7 per cento nel 2020. Con 750 miliardi di euro, di cui 390 di sovvenzioni e il resto in prestiti, l’Europa sta rispondendo in modo massiccio alla crisi. Tanto più che, essendo già stati mobilitati 540 miliardi di euro di prestiti, la Banca centrale europea (Bce) ha acquistato 2.000 miliardi di euro di obbligazioni. A questo vanno anche aggiunti i piani di ripresa nazionali. Ovviamente la distribuzione dei sussidi è stata ridimensionata rispetto alla proposta iniziale di 500 miliardi di euro, ma in realtà molti se lo aspettavano e si sono accordati dietro le quinte su una base di 400 miliardi di fondi necessari (390 è solo una concessione simbolica). Basteranno quei soldi? Difficile dirlo, soprattutto se una seconda ondata dell'epidemia dovesse complicare ulteriormente la situazione e colpire stati che non sono tra i primi beneficiari del piano. Ma una scommessa, anche se riguarda il futuro, comporta inevitabilmente dei rischi.

Solidale

L’accordo è, ovviamente, finanziariamente solidale poiché ci sono ripartizione del debito e trasferimenti. Ma lo è anche in termini di governance, con l'abbandono del diritto di veto sul controllo esercitato dai Ventisette sulle condizioni di spesa a favore di una maggioranza qualificata degli stati, che piaccia o meno a Mark Rutte (il premier olandese). Resta da vedere se la solidarietà espressa dal piano rappresenterà un precedente. Per il momento si tratta solo di un piano temporaneo e circostanziale che tra tre anni avrà esaurito i suoi fondi, anche se dovranno essere rimborsati fino al 2058. In questa fase non c’è alcuna garanzia che il principio sia sostenibile e che venga integrato nei futuri trattati.

Tedesco

Se i tabù sono stati sfatati uno ad uno, questo è avvenuto sia a Berlino che a Bruxelles. Finora campionessa indiscussa della frugalità, la Germania ha sempre tenuto duro sull’austerity, anche durante la crisi finanziaria del 2008 e la crisi del debito sovrano. Tuttavia ha finito per cambiare idea nel giro di poche settimane. Senza di essa nulla sarebbe stato possibile. La svolta è avvenuta sotto la guida esperta di una cancelliera che ormai ha raggiunto l’età di pensare ai posteri, in stato di grazia politica mentre è sostenuta da un rassicurante consenso e soprattutto dagli imprenditori tedeschi che temono un effetto domino. Ha capito la serietà della situazione e ha anche intuito che il popolo avrebbe fatto lo stesso, a meno che quest’ultimo non l'avesse già percepita. La crisi ha reso necessaria l'adesione definitiva alle richieste francesi che per lungo tempo erano rimaste senza risposta. Se la Francia avanzava una proposta, bisognava aspettare che la Germania fosse pronta ad accettarla. In questo modo, la coppia franco-tedesca ha dimostrato ancora una volta la sua forza motrice, tanto più che la Commissione si è schierata dalla sua parte.

Post-Brexit 

Un altro paese ha avuto un ruolo nell’intero processo... pur essendo assente. La decisione del Consiglio è anche la prima importante presa dai 27 stati membri, senza il Regno Unito, principale oppositore in Europa alla ripartizione del debito. I Paesi Bassi avrebbero voluto assumere questo ruolo, ma non hanno lo stesso calibro e la loro alleanza frugale di circostanza non è stata in grado di raggiungere la massa critica necessaria per far pendere la bilancia a loro favore.

Intergovernativo

Nonostante quanto previsto dai trattati, il Consiglio europeo è più che mai il luogo in cui si decide il futuro dell'Europa a livello dei vertici degli esecutivi nazionali. È stata la crisi finanziaria a rivelare questa formula istituzionale europea, confermata dal piano di ripresa mentre il parlamento europeo resta in disparte. In una risoluzione del maggio 2020 quest’ultimo aveva chiesto una somma di 2.000 miliardi per il piano di ripresa, ma è rimasto inascoltato È auspicabile che la Commissione, cui sarà affidato il compito di monitorare e guidare il piano secondo condizioni che sono ancora per gran parte da consolidare, trovi il modo di far sì che gli interessi e i valori dell'Unione prevalgano sui meri interessi nazionali. Questo è essenziale, ma nulla può essere dato per scontato. Il Parlamento lo sa e lo dice.

Troppo miope

Questa è la legittima preoccupazione che emerge dalla risoluzione che il parlamento europeo ha adottato a seguito dell'accordo. Esprime la rabbia degli eurodeputati europeo nel vedere il quadro finanziario pluriennale (Qfp) 2021-2027 limitato a 1.074 miliardi, più o meno l'importo dell'ultima proposta della Commissione. La proposta del Consiglio è giudicata fortemente insufficiente per far fronte alle sfide europee, tanto più che sono stati fatti pesanti tagli alle politiche comunitarie ritenute promettenti per il futuro. Tra le politiche coinvolte ci sono quelle relative alla salute, alla ricerca e alla difesa, per citarne solo alcune. Questi tagli sollevano interrogativi, con un’autoproclamata Commissione “geopolitica” che spera di vedere l'Europa diventare una potenza globale. È un brutto rospo da ingoiare, come dice la stessa presidente dell’esecutivo europeo, Ursula von der Leyen. La battaglia interistituzionale sul Qfp è indubbiamente solo agli inizi, e possiamo essere certi che il Parlamento lavorerà per ottenere ulteriori stanziamenti e l'impegno per una revisione intermedia, come ha fatto per il bilancio precedente.

Di ripresa o di recupero?

Le traduzioni sono sempre difficili in Europa. Sono anche significative, e le versioni inglese e francese di questo piano non hanno finito di nutrire il dubbio tra "recovery" in inglese e "relance" in francese, i cui significati sono presumibilmente identici. Lo sono davvero? 

Quali sono dunque le garanzie che questo nuovo contratto a tempo determinato firmato tra i 27 stati membri giovi a tutti, si chiedono gli eurodeputati? Come si può essere sicuri che i governi saranno sufficientemente virtuosi e competenti da risolvere i loro problemi nazionali grazie alle sovvenzioni e ai prestiti concessi? Riusciranno ad anticipare gli effetti duraturi dei loro investimenti per gli altri europei, anche se tutto viene fatto sotto il vigile (e necessario) controllo della Commissione in virtù di presunte condizionalità? Come si può allora garantire alle "generazioni future", per riecheggiare il nome ufficiale del piano battezzato "Next Generation EU", che la ripresa sarà lungimirante e in linea con le priorità dell'Unione, verde e digitale?

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Queste domande vanno poste. E questo breve elenco degli aggettivi da associare alle decisioni prese in questo Consiglio straordinario permette quindi di capire che, mentre alcuni aspetti dell'accordo sono molto incoraggianti, altri lasciano perplessi. Occorre eliminare qualsiasi ambiguità, perché ne dipende la portata storica a lungo termine dell'accordo che il Consiglio ha espresso. Per poterlo fare si devono prendere in considerazione le seguenti tre antiche domande alle quali l'accordo ci impone di rispondere più che mai:

Come andare avanti con l’unanimità?

Come ci si può ritenere soddisfatti di una modalità di governance ereditata dal passato che fa dell'unanimità una regola prevalente quando le decisioni si basano su una solidarietà e un’interdipendenza crescenti? Dov'è la coerenza tra l'assunzione di rischi condivisi e la possibilità per un paese di bloccare tutti gli altri? L'unanimità non è compatibile con la condivisione dei rischi e delle risorse. La conferenza sul futuro dell'Europa dovrebbe essere quantomeno un'occasione per ripensare l'impianto istituzionale proponendo una riforma del sistema di voto nel Consiglio, imponendo il ricorso sistematico al voto a maggioranza qualificata.

Come andare avanti senza risorse proprie?

Come si può aprire la porta ad una politica di bilancio europea con ripartizione del debito, senza approfondire la questione fornendo all'Ue risorse proprie per finanziare il proprio bilancio attraverso un sistema di tassazione europea ad hoc? L'accordo prevede queste risorse, il che è positivo, ma la “plastic tax” (tassa sulla plastica) non basterà, dato che dovrebbe coprire a malapena l'importo dei nuovi sconti concessi agli stati. È un gioco a somma zero. Anche in questo caso saranno necessari una maggiore ambizione e l'impegno a rispettare un calendario vincolante per prevedere nuove tasse che consentano di ridurre in modo significativo i contributi nazionali e il principio fatale del “giusto ritorno” ad essi associato. Mentre una politica di bilancio espansionistica richiederà maggiore sostegno da parte della Bce per monetizzare i deficit pubblici e mantenere i governi solvibili, correndo il rischio che si formino potenziali bolle speculative, in particolare nell’immobiliare, questi deficit sono comunque destinati ad aumentare. Il ricorso alle risorse proprie consentirebbe di ridurli e confermerebbe le priorità politiche della ripresa europea attraverso il sistema di tassazione europea.

Come andare avanti senza domandarsi come spendere prima di chiedere soldi insieme?

Come ha sottolineato l'economista Tito Boeri in un recente articolo: se l'Italia non vuole perdere la straordinaria opportunità rappresentata da un piano di ripresa di cui sarà la prima beneficiaria con 209 miliardi di euro, deve prima domandarsi come spendere i soldi prima di chiederli. Ha aggiunto che l'Italia è stata purtroppo l'ultima a pubblicare il suo piano nazionale di riforma, un piano ritenuto "verboso". Lo stesso tentennamento vale per l'Ue nel suo complesso, quando si vede quanto sia difficile prevedere e realizzare progetti industriali transnazionali concordati e concreti al di là della definizione degli importi del budget che si suppone debbano essere loro dedicati.

La ripresa dipenderà proprio da questa capacità di costruire insieme progetti futuri, che è l'unico modo per impegnare l'Europa in modo sostenibile sulla via della transizione ecologica e digitale. Una recente nota politica dell'Ofce (Osservatorio francese delle congiunture economiche) ha anche sollevato la questione di "come spendere" i soldi di un piano di ripresa post Covid-19 e ha avanzato proposte per un programma di investimenti basato su tre assi principali: salute pubblica, infrastrutture di trasporto ed energia a basse emissioni di carbonio. Queste sono solo alcune piste. Occorre moltiplicarle perché idee e progetti concreti mancano.

È sulla base delle risposte a queste tre domande che questo accordo passato alla storia contribuirà a cambiarla davvero. Si devono consolidare i meccanismi di integrazione e di azione comune utilizzando le leve della governance, della fiscalità e delle strategie, e dei progetti industriali transnazionali. Infine, l'accordo deve essere aperto a "realizzazioni concrete", per dirla alla Robert Schuman (uno dei padri fondatori dell’Unione europea), e fornire i mezzi per ottenere risultati tangibili e rapidi che gli europei possano vedere al più presto. In questo modo la nostra Unione potrà prepararsi al futuro pensando alle generazioni che verranno, come questo accordo ci invita a fare.

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