Il Tea party sbarca in Europa

L'avanzata dei partiti populisti nel vecchio continente sembra l'eco del successo del movimento conservatore statunitense. In realtà sono stati gli europei ad anticipare molti degli argomenti di Sarah Palin e compagni.

Pubblicato il 6 Maggio 2011 alle 15:12

Recentemente sui media statunitensi si è parlato del "Tea party europeo". Il Vecchio continente avrebbe fatto conoscenza con questo movimento dopo la vittoria elettorale dei Veri finlandesi e l'avanzata nei sondaggi del Front national di Marine Le Pen in Francia.

Sembra che i sentimenti che animano il Tea party siano stati esportati anche in Europa. Quando piove a Washington, il cielo si oscura anche Helsinki, a Parigi e nelle Fiandre. E se il Tea party americano insorge contro Washington, il Tea party europeo se la prende con Bruxelles.

Cerchiamo di essere chiari: al di fuori di qualche caso isolato su Facebook, la nozione di "Tea party europeo" non ha alcun senso. Semmai è il contrario: il Tea party è l'espressione statunitense di sentimenti che in Europa sono rappresentati già da anni da partiti come il Vlaams blok, oggi Vlaams belang (Vb, nazionalisti fiamminghi) nelle Fiandre, Il Front national in Francia, il partito del defunto Pim Fortuyn nei Paesi Bassi o la Lega nord in Italia.

Philip Dewinter (leader del Vb) stava già facendo comizi quando Sarah Palin aiutava ancora suo marito nella sua azienda di pesca a Wasilla, Alaska. Abbiamo il diritto di rivendicare la paternità di ciò che accade a casa nostra.

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Possiamo anche notare che ciò che chiamiamo "Tea party europeo" si preoccupa del mantenimento delle conquiste sociali, mentre la sua versione americana è inorridita dall'idea di uno stato sociale sul modello europeo. Barack Obama non può prendere la minima iniziativa sul piano sociale senza che si gridi all'avanzata del comunismo. Le differenze quindi sono parecchie.

Ma le origini del risentimento sono molto simili. In fondo si tratta sempre delle angosce esistenziali di bianchi di classe operaia e media. Su entrambe le sponde dell'Atlantico, i cittadini bianchi temono di vedere il proprio paese preso in ostaggio, di essere soppiantati dagli immigrati e di assistere alla scomparsa di un mondo dove per tanto tempo ha vissuto confortevolmente. E su entrambe le sponde ci sono elite arroganti che guardano con disprezzo la gente normale e le loro peculiarità nazionali.

Le destre populiste dei due continenti intrattengono da tempo un fitto dialogo. Tim Phillips, presidente di Americans for Prosperity – una delle lobby repubblicane di area Tea party – è stato in Norvegia per insegnare al locale Partito del progresso come far sorgere un movimento spontaneo di base in quattro e quattr'otto.

Sappiamo anche dei legami del Vlaams belang negli Stati Uniti. Il leader nazionalista fiammingo Bart De Wever si è ispirato al giornalista britannico Theodore Dalrymple, molto apprezzato anche nei circoli del Tea party. E il consigliere personale di Geert Wilders del Pvv olandese è Paul Belien, marito di Alexandra Colen, deputata del Vlaams belang che vanta eccellenti entrature nella destra americana.

Il punto in comune è la paranoia antiislamica. La teoria dell'"Eurabia", secondo cui gli immigrati musulmani sono la quinta colonna dell'islamizzazione dell'Europa, è popolare in entrambi i continenti. In parecchi stati americani sono sorte iniziative per impedire l'applicazione della sharia nei tribunali, circostanza che non si è mai verificata.

Paranoia e complotti

Il Tea party è più vicino a personaggi come Wilders e De Winter di quanto possa sembrare. Non c'è da stupirsi. Nel 1964 lo storico statunitense Richard Hofstadter descriveva nel suo classico The paranoid style in american politics queste elite che governano tutto restando nell'ombra. Mentre i membri del Tea party pensano che Obama sia un agente segreto islamico, i loro colleghi europei sono convinti che a Bruxelles si cerchi di costruire un super stato europeo dittatoriale.

Ovunque si temono complotti contro il piccolo cittadino bianco. Il vecchio, rassicurante mondo non tornerà più. La grande recessione ha fatto vittime da entrambi i lati dell'Atlantico. La disoccupazione, la povertà e l'incertezza del futuro proliferano. L'immigrazione pone dei problemi. A ciò si aggiunge una serie di imprevedibili rivolte in Medio oriente. C'è di che inquietarsi, come minimo.

Questa situazione provoca in un numero crescente di paesi le reazioni ostili dell'elettorato, che cerca di convincersi, in base a un passato idilliaco situato più o meno negli anni cinquanta, che tutto sarebbe meglio senza il resto del mondo. Chi non è di questo avviso è un intellettuale lontano dal popolo o un "cattivo fiammingo", o non è un "vero" americano o finlandese. La legittima preoccupazione per lo stato del mondo rischia di precipitare in reazioni irrazionali che non fanno che aggravarlo.

Sulle due sponde dell'Atlantico potrebbe prodursi un circolo vizioso autodistruttivo. È probabile che coloro che sostengono i populisti adottino un atteggiamento ancora più ostile al momento di andare a votare, permettendo ai populisti di guadagnare altro terreno e rendendo ancora più difficile trovare soluzioni razionali a problemi reali.

Nel frattempo, senza parlare di eventuali catastrofi, la situazione si traduce nell'impossibilità di governare e nell'impotenza ad agire per risolvere le grandi questioni del presente. Lo si constata allo stesso modo a Washington, Helsinki, l'Aia e Bruxelles.

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