Rassegna Passaggio a Nordovest

L’eredità di Leo Varadkar (e di Margaret Thatcher)

Come ha reagito la stampa anglofona di fronte alle inaspettate dimissioni di Leo Varadkar, più giovane primo ministro della storia dell’Irlanda? Lo racconta la rassegna di Ciarán Lawless.

Pubblicato il 10 Aprile 2024 alle 20:01

È il 2018 e mi sto godendo un drink con un nuovo conoscente canadese, dell’Ontario meridionale. La conversazione si sposta sui cambiamenti che sta attraversando la società irlandese: la già sentita narrazione sul crollo d’influenza della Chiesa cattolica e la precipitosa liberalizzazione dei valori. Questa rapida trasformazione si può efficacemente sintetizzare con due referendum storici: nel 1995 l’Irlanda è stato il penultimo paese europeo a legalizzare il divorzio (prima di Malta, che l’ha fatto nel 2011); e nel 2015 è stato il primo paese al mondo a legalizzare i matrimoni fra persone dello stesso sesso con un voto popolare (e a larga maggioranza). Il mio compagno di bevute va subito al sodo: “Il vostro primo ministro è gay e indiano, giusto?”. Dal suo tono di voce, capisco che le considera qualità intrinseche: un altro punto per i “buoni”. 

D’istinto, gli rispondo che tuttavia il meme più popolare della sinistra irlandese ritrae Leo Varadkar, il primo ministro in questione, con la pettinatura di Margaret Thatcher.

Come sottolinea Eoghan Kelly su The Conversation, i primi anni del governo Varadkar, al potere dal 2017, sono caratterizzati da misure di austerità fortemente impopolari, mentre in anni più recenti ha guidato un’economia in rapida crescita, cosa che ha reso ancora più inattese le dimissioni di marzo. 

Quei primi anni gli hanno valso la fama di “nemico delle classi più povere”, soprattutto dei disoccupati. Nel 2017, sullo sfondo di tiepide celebrazioni per l’elezione del primo taoiseach apertamente gay del paese, Waterford Whispers News, il principale sito web satirico irlandese, ha usato questo titolo: “Leo Varadkar diventa il primo leader irlandese apertamente classista”.

Sul Guardian, Rory Carroll suggerisce che, pur essendo stato associato ad alcuni cambiamenti epocali della politica irlandese, soprattutto il referendum del 2018 che ha legalizzato l’aborto, Leo Varadkar non è mai stato visto come un attore centrale di questi sviluppi. “Di solito gli stranieri impazzivano per Varadkar, considerandolo l’altissima incarnazione di uno zeitgeist liberalizzante”, scrive Carroll, ma “i progressisti irlandesi alzavano gli occhi al cielo, sostenendo che fossero altri politici e la società civile a fare il grosso del lavoro”. 

Questa dinamica si vede anche nelle prime conversazioni con Varadkar. Intervistato da Niamh Horan sull’Irish Independent nel 2016, gli viene chiesto se pensa che “l’aborto sia un problema di classe in Irlanda”. Varadkar liquida la domanda con una risata e dice di non averla nemmeno capita. Giusto per dare un minimo di contesto: prima della legalizzazione, le irlandesi che volevano abortire dovevano pagarsi viaggio e spese mediche per andare in Gran Bretagna, il che escludeva le donne in condizioni socio-economiche precarie (o marginalizzate).


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Quanto alla successiva fortuna economica del paese, Eoin Burke-Kennedy sull’Irish Times non è sicuro che Varadkar possa davvero prendersi il merito “della piena occupazione, generata in larga parte da investimenti americani a pioggia, e da un avanzo di bilancio dovuto alle eccezionali entrate derivanti dalle tasse versate da quelle stesse aziende”. Tuttavia, come sostiene Burke-Kennedy, è questa l’eredità positiva di Varadkar: un’eredità che “assomiglia molto alla natura su due livelli dell’economia irlandese, che in alcuni punti ha messo il turbo, e in altri scricchiola alle giunture”. 

In modo un po’ meno gentile, lo scienziato politico Eoin O’Malley afferma che “l’eredità di Varadkar sarà quella di chi è stato sconfitto dalle urne”, come scrive Jon Henley sul Guardian. Anche se le vere ragioni delle dimissioni di Varadkar non saranno mai del tutto chiare, un fattore che di sicuro ha contribuito è stato il pesante fallimento dei referendum di marzo sulla famiglia e le cure famigliari. 

I due quesiti referendari, sostenuti dal governo, dai partiti di opposizione, da varie ong e da organizzazioni della società civile, puntavano a modernizzare le “antiquate” definizioni di donna e famiglia della costituzione irlandese del 1937, nella quale le famiglie sono definite dal matrimonio e il valore della donna si misura sul suo contributo ai doveri domestici. Come spiega Shawn Pogatchnik su Politico Europe, “quelle idee di un’era ormai lontana stridono fortemente con la realtà dell’Irlanda di oggi, dove due quinti dei bambini nascono al di fuori del matrimonio e la maggior parte delle donne lavora fuori di casa”.

I sostenitori del referendum solitamente imputano il loro fallimento a una formulazione poco felice e alla decisione di affrettare il voto per farlo coincidere con la Giornata internazionale della donna. Il piccolo ma influente partito socialista irlandese ha deciso di ritirare il suo appoggio al referendum sulle cure famigliari all’ultimo minuto, dopo aver ascoltato le preoccupazioni di chi difende i diritti delle persone disabili. Se passasse, il referendum indebolirebbe l’obbligo dello stato a garantire l’assistenza alle persone disabili, e darebbe “espressione costituzionale alla posizione ideologica conservatrice secondo cui la responsabilità primaria delle attività di cura ricade sulla famiglia e sui suoi membri”, come ha sostenuto il senatore Tom Clonan sull’Irish Examiner a febbraio. 

La risposta di Varadkar a queste preoccupazioni non è stata molto rassicurante: “In realtà non credo che sia responsabilità dello stato, a essere onesto. Credo che sia una responsabilità delle famiglie”. Come dice Ciarán O’Rourke sulla rivista statunitense di sinistra Jacobin, “Margaret Thatcher sarebbe sicuramente stata d’accordo”. 

A queste discutibili ragioni del fallimento dei due referendum dobbiamo di certo aggiungere l’innegabile desiderio di dire semplicemente no (due volte) a un governo impopolare. Mentre i due precedenti referendum su divorzio e matrimonio omosessuale hanno sfruttato un risentimento covato a lungo nei confronti della gerarchia ecclesiastica (sul macabro sfondo di abusi sessuali ai danni di minorenni, fosse comuni, ecc.), i referendum del 2024 sono stati indetti nel momento in cui il governo era il principale oggetto di biasimo da parte dei cittadini, soprattutto a causa delle dilaganti disuguaglianze economiche evidenziate da Burke-Kennedy e altri. 

Fino a poco tempo fa questo malessere avrebbe potuto trovare uno sfogo politico nello Sinn Féin, l’ex braccio politico dell’IRA. Come spiega Agnès Maillot su The Conversation, il partito ha compiuto significativi passi avanti per guadagnarsi rispettabilità e diventare una credibile alternativa di sinistra. Ma questa rispettabilità è un’arma a doppio taglio: più si avvicina al potere (e i sondaggi dicono che ci sta andando molto vicino), meno rappresenta una minaccia allo status quo. 

Questo ha fatto entrare il partito in conflitto con la sua base. Come scrive l’ex corrispondente di guerra Aris Roussinos su UnHerd (riferendosi ai recenti sondaggi sugli orientamenti dell’elettorato in base al partito), chi vota lo Sinn Féin è – con evidente sorpresa della sua leadership socialmente progressista – il blocco più nazionalista del paese”. 

Quindi, ritrovandosi senza più alcuna rappresentanza politica, un grosso segmento della popolazione è passato alla rivolta populista. Mentre Leo Varadkar dice addio al comando, l’Irlanda saluta “la ribellione populista più veloce, benché informe, d’Europa, con grande fastidio della sua classe politica”.

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