È questo il futuro della Bulgaria? Elenko Elenkov

La dogana di Kafka

Ore di fila agli sportelli della dogana, moduli da riempire e dialoghi assurdi: tutto per recuperare delle magliette comprate su internet. È accaduto a un giornalista, la cui testimonianza ha acceso i dibattiti in Bulgaria.

Pubblicato il 13 Gennaio 2010 alle 15:52
È questo il futuro della Bulgaria? Elenko Elenkov

Fate shopping online? All'estero? Dal primo gennaio 2010 il minimo imponibile per gli acquisti al di fuori dell'Ue non è più 150, ma 15 euro. Da oggi in poi si potrà comprare poco più che un paio di calzini senza pagarci le tasse. E per sbrigare le formalità bisogna recarsi personalmente in uno degli uffici della dogana di Sofia: è quello che è successo a me per aver ordinato, poco prima di Natale, un pacco di t-shirt da un sito americano. Questo il resoconto di ciò che vi aspetta. “Recatevi allo sportello 23”, diceva la comunicazione delle Poste. La sede postale della dogana di Sofia si trova nei pressi della stazione centrale. Entrando incontro alcuni impiegati che trascinano carrelli pieni di pacchi: Ebay, Amazon, Usps, Ups, ecc: le sigle sono piuttosto rassicuranti. Nel migliore dei casi, qui ci si limita a pagare una tassa sugli “oggetti di valore” di quattro Leva [circa due euro], e si ritira il proprio pacchetto. Ma il mio non è il migliore dei casi, perché le mie magliette arrivano dagli Stati Uniti.

“Bisogna ispezionare il pacco, chiamo un responsabile”, mi dice l'impiegato, squadrandomi con sospetto. Arriva un uomo senza uniforme. Mi chiede i dati anagrafici, poi scompare. Poco dopo mi fanno passare attraverso una porta nascosta e sono nello sportello 30. E' una specie di stanza ricavata dentro un'altra stanza, dove gli impiegati si riscaldano con piccole stufe elettriche. Due ispettori si impossessano del mio pacco, lo aprono con un taglierino e ne tirano fuori il contenuto: t-shirt, come previsto, una fattura e alcune spillette regalate dal negozio on-line. “E queste cosa sono?” “Delle spillette”, rispondo io. “Perché non c'è la fattura di queste spillette? Devono pur aver un valore!”. “Certo”, rispondo ancora io, “Ma è un regalo del negozio, io non le ho ordinate”. Riesco a percepire che le mie spiegazioni sono inutili: i doganieri già sospettano che io sia un irriducibile contrabbandiere di spillette californiane. Arriva il verdetto: “vada allo sportello 17, si faccia fare un certificato Eori e poi torni qui per rilasciare una dichiarazione”. “Ma cos' è un certificato Eori?” “Vada, glielo diranno sul posto”.

Addio privacy

Allo sportello 17 c'è la contabilità. Nessuno mi sa dire cosa sia un certificato Eori, ma io devo riempire un modulo con ogni sorta di dato personale. “Poi faccia una fotocopia della sua carta d'identità”, mi dice l'impiegata. M'impunto, conosco i diritti sanciti dalla sulla privacy, ma dopo alcuni minuti di accesa discussione mi rendo conto che la mia battaglia è persa in partenza: devo lasciare che lo stato infranga le sue stessi leggi per recuperare le mie magliette. I miei obiettivi sono ora lo sportello 21, dove si trova la fotocopiatrice (per altro molto cara), e lo sportello 13, dove si rilascia il fantomatico certificato Eori. Una curiosità: qui si può fumare, la legge che vieta il fumo negli uffici pubblici sembra non valere. Mi accoglie un altro impiegato, sicuramente un laureato con 110 e lode, ma il cui compito consiste semplicemente nel riportare sul computer tutti i dati che io ho compilato a mano nel modulo. Solo per fare questo ci mettiamo una mezz'ora. Alla fine mi ritrovo con il mio certificato Eori che mi assegna un “numero provisorio” di acquirente on-line: è il mio codice fiscale, leggermente modificato. “Perché sia valido però le occorre la firma della direttrice della dogana”, mi dice l'impiegato quasi come se mi facesse una confidenza.

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La direttrice deve essere una donna molto indaffarata, perché ha due segretarie, alle quali affido i documenti da firmare. Ma queste hanno paura di disturbare la capa, e quindi aspetto con loro che esca dal suo ufficio. Una volta uscita, la direttrice si scaglia contro un'altra impiegata e firma i miei documenti senza neanche guardarli. Ritorno allo sportello 17 per un timbro, poi al 28 dove devo dichiarare di aver detto il vero. Il conto è otto Leva e l'informazione è archiviata in un floppy-disk anni '90 che mi chiedono di portare allo sportello 9. Evidentemente la dogana bulgara ancora non conosce le gioie della rete locale. Allo sportello 9 tutto è nuovo di zecca, e i computer fiammanti. L'impiegata tira fuori un incredibile lettore, ci infila il dischetto e poi lo collega alla porta USB del suo computer. Sono esterrefatto, è come attaccare una carretta a una navicella spaziale!

Ma non è finita qui. Torno allo sportello 14, la banca, dove pago. Poi aspetto allo sportello 9 che il pagamento risulti sul conto della dogana, torno allo sportello 23 (per la tassa “oggetti di valore”), e arrivo, sfinito come un guerriero dopo la battaglia, allo sportello 30, dove mi attende il mio pacchetto sventrato con le t-shirt. Sono state quattro indimenticabili ore di odissea nella dogana di Sofia. (nv)

REAZIONI

Un'eco inaspettata

Questa testimonianza è diventata l'articolo più letto in assoluto sul sito di Dnevnik dalla sua creazione, e ha suscitato quasi mille commenti. Anche il ministro dell'economia Siméon Diankov ha reagito alla sua pubblicazione, impegnandosi a controllare di persona il funzionamento delle dogane. I suoi uomini hanno promesso una “semplificazione” delle procedure. Recentemente, Dnevnik e il settimanale Kapital, che fanno parte dello stesso gruppo editoriale, hanno creato una rubrica che riprende la scritta sulle magliette ordinate dall'autore: “This was supposed to be the future” [“questo doveva essere il futuro”].

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