Piano con quella cinghia

Uno dopo l'altro i governi europei adottano bilanci rigidissimi per rispettare gli impegni presi. Ma è necessario distinguere i sacrifici utili da quelli che possono aggravare la situazione.

Pubblicato il 1 Ottobre 2012 alle 15:49

È venuto il turno della Francia di presentare il proprio bilancio al risparmio, con impegni e sacrifici quantificabili in 37 miliardi di euro, necessari a riportare il deficit pubblico al di sotto della soglia del 3 per cento, come si sono auto-imposti i paesi membri della zona euro.

Mentre l’attività produttiva continua a rallentare, le manovre finanziarie di Italia, Spagna e Portogallo non potranno che portare a un 2013 ancora più difficile del 2012, tenuto conto della disoccupazione record. La priorità assoluta va dunque al riassorbimento della disoccupazione. Le recenti manifestazioni in Spagna, l’affermarsi in Grecia di un partito nazista, l’ascesa in ampie percentuali dell’opinione pubblica francese di un sentimento antieuropeo: nulla di tutto ciò, naturalmente, giova.

Sempre più economisti, tuttavia - e tra essi il premio Nobel ed editorialista del New York Times Paul Krugman - affermano che se si continua ad aggiungere austerity ad austerity, l’Europa non soltanto non ripartirà, ma si impoverirà sempre più. E forse entrerà in un ciclo che potrebbe assomigliare davvero alla grande depressione degli anni trenta.

Al momento trovare la giusta via di mezzo tra liberarsi del paralizzante debito pubblico e rilanciare la via per la crescita e infondere speranza è quanto mai problematico. Il primo ministro francese Jean-Marc Ayrault parla di dittatura dei mercati: per porre rimedio al proprio debito, ha spiegato, la Francia ha bisogno come la Spagna di prendere in prestito capitali sui mercati al tasso più basso possibile.

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È quanto vale oggi per la Francia, fin dall’elezione di François Hollande. Se la Francia non saprà dare l’impressione di aver fatto tutto il possibile per tornare sotto la soglia del 3 per cento, sarà sanzionata con tassi di interesse che renderanno insostenibili le spese del debito. È a questo punto che ci si dice che ciò che un paese non è in grado di fare da solo, la zona euro potrebbe tentarlo tutta insieme, alleggerendo l’obbligo del 3 per cento e spalmando nel tempo, paese per paese, l’inevitabile inversione di marcia.

Cerchiamo però di capirci: il male da cui siamo tutti affetti, a esclusione della Germania, è un deficit di competitività. Questo giustifica buona parte degli sforzi e dei sacrifici che ci sono chiesti. Ma bisogna anche tener conto che per evitare all’Europa una recessione prolungata è necessario ridare flessibilità al sistema. Da questo punto di vista, il tempo stringe.

Il nuovo trattato in corso di ratifica offre una breccia della quale bisogna saper approfittare, distinguendo tra deficit strutturali e deficit congiunturali. I primi devono essere categoricamente colmati e tendere allo zero, mentre i secondi – determinati in particolare dal ritmo della congiuntura – dovranno essere adattati a questo ritmo. Se si apre un varco, però, cerchiamo di approfittarne.

Modello americano

Forse vale la pena ripercorre le precedenti tappe della crisi, iniziata negli Stati Uniti. Sin dall’inizio la crisi americana è parsa in grado di mettere in pericolo sia l’economia sia la finanza mondiale. È stato allora che i paesi del G20 hanno trovato una risposta, sintonizzando i propri punti di vista e concertando ciò che andava fatto.

Oggi Stati Uniti e Cina (le cui esportazioni in Europa sono scese rispettivamente quasi del 10 e del 5 per cento), ma anche Brasile e altri paesi constatano l’entità dei danni provocati dall’inazione europea: perché dunque non si mettono d’accordo e nell’ambito di un G-20 rinnovato non si decidono una buona volta a rispondere tutti insieme? Dopo tutto, ciò che ha giovato agli Stati Uniti dovrebbe aiutare anche l’Unione europea.

Purtroppo, dopo che il grosso della crisi americana è passato, abbiamo vissuto un ritorno alla difesa degli interessi nazionali, con tentativi protezionistici sempre più evidenti che si sono in parte concretizzati. È invece il momento di invertire la tendenza e di dare avvio a livello di G20 alla concertazione necessaria. Sarebbe anche ora che l’Europa capisse che non tutti possono lottare contro il deficit con lo stesso ritmo e che occorre avere di conseguenza la saggezza di diluire nel tempo gli sforzi degli uni e degli altri.

Proprio come sarebbe ora di attuare le decisioni prese. François Hollande si vanta di aver completato la manovra di bilancio con un patto per la crescita di almeno 120 miliardi di euro. Che cosa stanno aspettando dunque i nostri governi per mobilitare queste somme al servizio della crescita?

Da Parigi

L’autunno è ancora tiepido

Il 30 settembre a Parigi circa cinquantamila persone hanno manifestato contro il trattato fiscale europeo, alla vigilia del suo esame da parte del Parlamento. “Gli oppositori del trattato europeo, scesi per la prima volta in strada per una manifestazione di rilievo nazionale dopo la vittoria dei socialisti, vogliono avere un ruolo nel dibattito parlamentare sul trattato”, scrive La Croix. L’editoriale del quotidiano descrive la mobilitazione parigina come “la prima manifestazione di sinistra contro un governo di sinistra”.

Il quotidiano francese sottolinea che la manifestazione è stata molto lontana dal milione di persone che hanno invaso le strade di Atene, Madrid e Lisbona nelle ultime settimane, e ricorda che

il trattato è una tappa essenziale per valutare la capacità degli europei di mettere ordine nelle loro finanze e per restituire fiducia all’eurozona e all’economia francese. Senza l’accordo i meccanismi di solidarietà verso gli stati più fragili non potranno entrare in funzione.

La posizione di La Croix sembra essere condivisa dalla maggioranza dei francesi, almeno secondo i risultati di un sondaggio pubblicato da Aujourd’hui en France - Le Parisien: “se il trattato fosse sottoposto a referendum il 64 per cento dei francesi voterebbe sì”.

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