Reportage Lavorare in Europa
Un lavoratore in un campo di kiwi a Latina, settembre 2022. | Foto: Stefania Prandi Kiwi_StefaniaPrandi-VoxEurop

Lo sfruttamento dietro il kiwi made in Italy

L’Italia è il principale produttore europeo di kiwi e il terzo al mondo. Dalla provincia di Latina arrivano i kiwi Zespri, esportati in tutta Europa. Un’industria che si regge sui lavoratori indiani impiegati nella raccolta, sottopagati e senza tutele. Le aziende locali rimandano ogni responsabilità a enti terzi di controllo. L’inchiesta di IrpiMedia.

Pubblicato il 4 Maggio 2023 alle 09:03
Kiwi_StefaniaPrandi-VoxEurop Un lavoratore in un campo di kiwi a Latina, settembre 2022. | Foto: Stefania Prandi

Con voce bassa, spalle incurvate e occhi lucidi, Gurjinder Singh ripercorre i quindici anni di sfruttamento nei campi di kiwi in provincia di Latina. Seduto in un bar nella piazza centrale di Cisterna di Latina, ha appena finito di lavorare. A settembre la luce ancora calda delle cinque del pomeriggio si riflette sul pavimento chiaro. Gurjinder si sfrega le mani come se cercasse di togliere le macchie scure. “Uso anche il detersivo, le strofino con la spazzola, ma i segni restano” dice, mostrando i palmi neri segnati dai calli.

Ha cinquant’anni e ha lavorato in diverse aziende della zona, guadagnando tra i cinque e i sei euro l’ora. In quelle più piccole non ha mai avuto un contratto e riceveva la paga a mano, in contanti, a fine giornata. Di recente, ha lavorato in un’impresa dove erano impiegati oltre 70 lavoratori, controllati a gruppi dai capisquadra, che spesso li insultavano e minacciavano di picchiarli. Il suo non è un caso isolato.

Lo sfruttamento nella filiera dei kiwi

L’Italia, con 320 mila tonnellate esportate nel 2021 in cinquanta paesi, per un fatturato di oltre 400 milioni di euro, è il principale produttore europeo di kiwi e il terzo al mondo dopo Cina e Nuova Zelanda. La prima regione del paese dove si coltiva la “bacca verde” è il Lazio. Globalmente, un terzo di tutti i kiwi commerciati nella grande distribuzione viene dalla multinazionale Zespri. Nata in Nuova Zelanda, è leader nel settore e presente in sei paesi. Dalla provincia di Latina, arriva una buona parte della frutta venduta con il marchio Zespri (il 10,5 per cento). Un mercato gigantesco, che solo in Italia conta quasi 3mila ettari di campi, centinaia di produttori e migliaia di braccianti.

Difficile conoscere il numero esatto degli operai agricoli impiegati nella raccolta perché “spesso si lavora in nero”, spiega Laura Hardeep Kaur, sindacalista della Flai Cgil di Latina. Nei filari, gran parte dei lavoratori sono indiani provenienti dal Punjab, di religione sikh.

Secondo i dati Inps, i braccianti indiani in provincia di Latina sono quasi 9.500, con più di un milione di giornate registrate nei contratti a tempo determinato. Marco Omizzolo, docente di Sociopolitologia delle migrazioni all’Università La Sapienza di Roma, sotto protezione a causa delle minacce ricevute per il suo impegno di contrasto al caporalato nell’Agro Pontino, calcola che nell’area ci siano circa 30 mila persone appartenenti alla comunità sikh. Nella stima sono inclusi i senza permesso di soggiorno, i residenti in altre province e quanti, arrivati di recente, sfuggono ancora alle statistiche.


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Dalle oltre cinquanta interviste realizzate per questa inchiesta in Italia e in India, tra maggio e dicembre 2022, a lavoratori, sindacalisti, ricercatori, famiglie indiane, agenti di viaggio del Punjab e intermediari, risultano condizioni di lavoro indegne. Non solo paghe da fame, contratti irregolari e la costante minaccia della violenza. C’è anche il ricatto senza fine legato al permesso di soggiorno, impossibile da rinnovare senza un’azienda che provveda, almeno formalmente, alla stipula di un contratto di assunzione.

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I salari non superano mai 7 euro l’ora, e tendenzialmente sono più bassi, con una media tra i 5 e i sei 6. Ben al di sotto dei circa 9 euro lordi all’ora stabiliti dal contratto provinciale come paga base di un operaio agricolo. Frequente lo stratagemma del cosiddetto “lavoro grigio”, cioè il pagamento del salario in parte regolare e in parte in nero: sistema molto diffuso fra gli imprenditori della zona per versare meno contributi e tasse, mantenendo una regolarità formale che rende più difficili i controlli. Inoltre, ricorrono i licenziamenti immotivati, l’assenza di servizi igienici adeguati, le pause troppo brevi e la mancanza di dispositivi di protezione obbligatori, come guanti e mascherine.

L’impresa dove Gurjinder Singh ha lavorato per tre anni vende i kiwi a Zespri. Nei campi, la caporale lo ha filmato per tre volte con il cellulare mentre si fermava per bere o perché gli era entrato qualcosa negli occhi. I video servivano – almeno così minacciava la supervisora – come “prova” della sua scarsa efficienza e venivano consegnati al capo dell’impresa: un “avvertimento” usato anche con altri lavoratori, per non retribuire le giornate.


Vere e proprie spedizioni punitive verso i braccianti che hanno provato a ribellarsi al sistema di sfruttamento. E c’è chi è stato minacciato davanti casa con fucili a pompa


Le storie di violenze da parte dei capi e caporali, d’altronde, sono frequenti e ben note nella comunità sikh della zona. Vere e proprie spedizioni punitive verso i braccianti che hanno provato a ribellarsi al sistema di sfruttamento: alcuni speronati da auto mentre raggiungevano i campi in bicicletta; altri derubati e malmenati. E c’è chi è stato minacciato davanti alla propria abitazione con fucili a pompa.

Alla domanda sul perché non se ne sia andato, Gurjinder Singh risponde: “Non avevo scelta, dovevo guadagnare per i miei quattro figli e mia moglie. Sono rimasti in India, non li vedo da tredici anni”.

“Eravamo poveri quando sono partito: per arrivare qui ho dato 14mila euro a un trafficante. Sono dovuto passare dalla Russia, camminando a piedi nella neve per chilometri e poi caricato sui camion”. Gurjinder Singh si esprime quasi soltanto in punjabi. “Non impariamo mai bene l’italiano, siamo tutti stranieri nei campi”. Se un indiano parla italiano, rischia di venire mandato via dai capisquadra perché è considerato più difficile da controllare, dato che potrebbe stabilire un rapporto diretto col capo dell’azienda.

I responsabili dello sfruttamento

Attraversare la provincia di Latina, da settembre a novembre, vuol dire immergersi in un paesaggio di campi di kiwi e casse colorate, chiamate con il linguaggio tecnico bins (bidoni). Si trovano tra i filari, per essere riempite dalle squadre di braccianti. A ogni colore di bin corrisponde una Organizzazione di produttori (Op), cooperative da cui passano i kiwi destinati al mercato estero. Tredici di queste hanno la licenza per vendere a Zespri.

La multinazionale è nota soprattutto per la varietà a polpa gialla, la “SunGold”, la più piantata nell’Agro Pontino (69 per cento contro il 31 della varietà verde). Zespri è proprietaria dell’omonimo brevetto internazionale e concede la coltivazione delle sue piante unicamente con la stipula di un contratto: stabilisce quindi il numero di ettari e licenze per la coltivazione, distribuendole a consorzi o cooperative che, a loro volta, cercano gli agricoltori. I produttori non pagano la licenza, ma sono tenuti a diventare soci delle cooperative che sostengono i costi del packaging.

Dai campi i kiwi vengono portati nei grandi magazzini delle organizzazioni di produzione e poi negli stabilimenti di proprietà delle cooperative. Lì vengono impacchettati e diventano kiwi Zespri: l’apposizione del bollino della multinazionale segna l’avvio della commercializzazione in Europa. La catena è sorprendentemente complessa, Marco Omizzolo la descrive come una sorta di “melassa imprenditoriale”, dove c’è chi produce e chi vende a un altro produttore che a sua volta rivende a un marchio.

Cumuli di cassoni di kiwi vuoti nella provincia di Latina, nel settembre 2022. | Foto: Stefania Prandi
Cumuli di cassoni di kiwi vuoti nella provincia di Latina, nel settembre 2022. | Foto: Stefania Prandi

Il sistema però, chiaramente funziona: tra il 2021 e il 2022, Zespri ha fatturato due miliardi e mezzo di euro, con oltre 200 milioni di cassette di kiwi vendute in tutto il mondo. A favorire l’espansione nel Lazio è stato il clima, quasi identico a quello neozelandese nonostante il riscaldamento globale; mentre in Nuova Zelanda è primavera, nel nostro emisfero è autunno, e viceversa: per la multinazionale questo significa produzione e profitti tutto l’anno.

Nel 2019 erano 2.700 gli ettari di kiwi SunGold in Italia e l’obiettivo, ha annunciato l’azienda, è arrivare ad acquistarne 5.400 entro il 2025.

Zespri non solo distribuisce le licenze, ma fissa anche le caratteristiche organolettiche dei kiwi: peso, colore, sostanza secca — zuccheri, carboidrati e amido — e durezza. Nel periodo della maturazione, le Organizzazioni di produzione prelevano alcuni campioni di kiwi dalle aziende a loro afferenti, li fanno analizzare, controllano se il frutto rispetta i criteri e decidono quando il produttore può iniziare a raccogliere. Il prelievo riguarda ogni filare: in una singola ditta, quindi, la raccolta può cominciare con tempi diversi. Le regole sono ferree, come riferiscono alcuni produttori: sono necessari guanti di cotone e manovre delicate e precise; indispensabili a non rovinare il frutto quando lo si mette nelle cassette.

4,50 euro l’ora

La cura riservata al prodotto tuttavia contrasta con le condizioni riferite dagli operai agricoli. “Vogliono che si lavori velocemente, gridano di sbrigarsi. Quando danno i soldi però, tolgono sempre alcune ore dalla busta paga e non pagano tutti i giorni di lavoro”, riferisce Amandeep Singh, impiegato, in passato, a Cisterna di Latina in un consorzio produttore diretto di kiwi per Zespri. Da vent’anni in Italia, racconta di essere stato trattato sempre male. Nel consorzio di kiwi ha accettato stipendi anche da 4,50 euro l’ora pur di avere un contratto e poter rinnovare il permesso di soggiorno. Le giornate potevano durare dieci ore, per sette giorni a settimana, ben oltre i limiti imposti dal contratto provinciale.

“In busta paga scrivevano 600–700 euro e mi davano 200–300 euro in nero, togliendo dalle tre alle sette ore di lavoro”, spiega. Una pratica diffusa: “Tutti i padroni fanno lo stesso”, sostiene, abbassando lo sguardo per poi allontanarsi verso la cucina del gurdwara, il tempio sikh di Velletri. Nel suo curriculum c’è un’altra delle organizzazioni di produttori con licenza Zespri per cui ha lavorato due anni fa per cinque euro l’ora.

Nei templi, sparsi in tutta la provincia e mantenuti con le offerte dei fedeli, la comunità sikh si incontra la domenica. Molti gurdwara sono ricavati da capannoni dismessi, adibiti successivamente a luoghi di culto. Quello di Velletri è un unico stanzone dalle pareti rosa, con il pavimento ricoperto di tappeti e carta colorata che scende dal soffitto. Dall’altare, in fondo, il ministro di culto – il granthi – legge il “Libro sacro” con scritti i precetti tramandati dai dieci guru del Sikhismo ai fedeli, una serie di azioni positive che ognuno deve compiere per progredire nell’evoluzione personale.

Un sacerdote indiano in un tempio sikh. | Foto: Stefania Prandi
Velletri, settembre 2022. Un sacerdote indiano in un tempio sikh, dove i lavoratori possono trovare rifugio se non riescono a guadagnare abbastanza per pagare l'affitto. | Foto: Stefania Prandi

Al tempio si preparano pasti a tutte le ore per i fedeli e per chiunque ne abbia bisogno. Si mangia insieme, seduti sul pavimento di una grande sala con muri fatti di pannelli verdi di plastica. I più giovani passano a distribuire cibo e bevande. “Ho vissuto qui per due anni, senza pagare affitto, cibo né luce, perché non potevo permettermi una casa”, racconta Amandeep Singh. “Sono da 20 anni in Italia e ho visto almeno 700 persone nelle mie stesse condizioni”.

La “melassa imprenditoriale”

All’interno della “melassa imprenditoriale”, la filiera dei kiwi e la sua tracciabilità si inabissano: “Quando ci sono tanti produttori che portano il raccolto alle grandi aziende, c’è un sistema di controllo sulla qualità, però non si fa molta attenzione a come il piccolo produttore tratti i lavoratori”, commenta Giovanni Gioia, segretario generale del sindacato Cgil di Frosinone-Latina. Durante la stagione della raccolta, i braccianti aumentano: se nella gran parte dell’anno sono al massimo in quattro a occuparsi della pulitura della pianta, in autunno possono diventare centinaia, a seconda degli ettari a disposizione. Dei loro “padroni” i sikh conoscono a malapena il nome e quasi nessuno sa dire a chi vengano venduti i frutti raccolti. Zespri è un nome ignoto tra i sikh e i magazzini delle cooperative sono molto distanti dai campi. Quando si termina il lavoro in un’azienda, si passa alla successiva, col passaparola di amici.

Paramjit Singh lavora nella stessa ditta nominata da Gurjinder Singh e Amandeep Singh. Inizialmente dice di trovarsi bene, ma appena iniziamo a fare domande racconta della caposquadra: “Mentre lavoriamo ci urla all’orecchio di essere più veloci. Tratta in modo diverso indiani e rumeni: i suoi connazionali stanno vicino al rimorchio dove si caricano i kiwi, così fanno meno fatica”. Paramjit Singh lavora otto ore al giorno per 6,50 euro l’ora nel periodo di raccolta, altrimenti la paga è di un euro in meno. “In quest’azienda sono passate più di mille persone che, appena hanno potuto, hanno cambiato luogo di lavoro”, ricorda il mediatore, mentre traduce Paramjit Singh.

Mandeep Singh conferma le testimonianze di Gurjinder Singh, Paramjit Singh e Amandeep Singh. La caposquadra “era cattiva, urlava parolacce” e lui si vergogna di ripeterle. Per Mandeep Singh sono stati anni di vessazioni, durati fino a quando è stato licenziato. La sua “colpa” sarebbe stata quella di aver lavorato per altri – senza contratto – mentre lì la raccolta era finita.

L’azienda in questione, messa al corrente delle irregolarità raccontate dai suoi lavoratori, ha rigettato le accuse: “Sono tutti in perfetta regola così come previsto dalle norme, ma sono soprattutto rispettati”, ha risposto per email. Sostiene di collaborare con i sindacati e  di sottoporsi con apertura e disponibilità alle verifiche degli organi di controllo.


Solo nel mese di ottobre 2022, in quattro giorni, due operai agricoli di nemmeno venticinque anni si sono tolti la vita nelle aziende dell’Agro Pontino dove erano impiegati


Interpellata sulle situazioni di irregolarità riscontrate nel corso di quest’inchiesta nelle aziende con la licenza per produrre i suoi kiwi, Zespri ha risposto: “La stragrande maggioranza dei datori di lavoro dell’industria dei kiwi si prende cura dei propri dipendenti: una piccola minoranza potrebbe non farlo. Qualsiasi sfruttamento dei lavoratori è inaccettabile e ci impegniamo a chiedere conto a chi è coinvolto e a continuare a migliorare i nostri sistemi di conformità per aiutarci a farlo. Prendiamo estremamente sul serio le accuse e abbiamo avviato un’indagine in merito, anche per capire come sostenere al meglio i lavoratori coinvolti”. L’azienda collabora “con più di 1.200 coltivatori in Italia ai quali è richiesto il certificato Gobal Gap Grasp (Global Risk Assessment On Social Practice)”.

Ogni coltivatore viene valutato annualmente da parte dell’organismo di certificazione indipendente. I fornitori di Zespri, che provvedono all’imballaggio del prodotto, sono registrati a Sedex, “una delle principali organizzazioni di commercio etico focalizzata sul miglioramento delle condizioni di lavoro nelle catene di approvvigionamento globali”, specifica. Attraverso Sedex, i fornitori italiani di kiwi SunGold vengono controllati esternamente da un organismo di certificazione terzo e confermano annualmente la loro accettazione del Codice di condotta dei fornitori Zespri.

Zespri sostiene di aver contattato sia i propri fornitori che i certificatori “per metterli al corrente delle presunte pratiche scorrette”; aggiungono che invitano “chiunque sia in possesso di informazioni relative a pratiche illegali” a contattare l’azienda tramite “la linea telefonica riservata EthicsPoint – Zespri International”. La multinazionale afferma comunque di aver creato una propria “task force per rivedere i programmi di conformità ai regolamenti di Zespri [delle aziende fornitrici] a livello globale e identificare iniziative e/o miglioramenti da introdurre nella prima metà di quest’anno”.

Dispositivi di sicurezza

Le risposte di Zespri farebbero sperare in un pronto intervento “dall’alto” ad arginare pratiche fin troppo diffuse nell’area, ma c’è un ulteriore tassello che lega la multinazionale all’Agro Pontino. 

Craig Thompson, direttore di Zespri Group Limited e di Zespri International Limited – che per il suo ruolo ha guadagnato oltre 66 mila euro nel solo 2022 – è azionista proprio di una delle aziende produttrici di kiwi i cui braccianti abbiamo intervistato. Thompson risulta, infatti, socio della società agricola Gik di Cisterna di Latina, di proprietà del consorzio dove lavorano le persone intervistate, tra cui Rishi Singh, che  hanno firmato un contratto per lavorare a 6,50 l’ora, senza adeguati dispositivi di sicurezza. Come loro, anche Kamaljit Singh lavora per Gik: “Non ci lasciano fare gruppo, continuano a cambiare le squadre in modo da impedirci di parlare tra di noi”.

La Gik è stata contattata per un confronto sulle dichiarazioni dei suoi lavoratori, ma non ha mai fornito risposte.

Zespri non ha commentato la relazione tra Thompson e la società di Cisterna di Latina, ma ha ribadito di prendere molto sul serio tutte le accuse e di aver contattato gli organismi di certificazione indipendenti, esponendo le proprie preoccupazioni relative alla filiera produttiva dei kiwi in Italia.

Mentre la catena di approvvigionamento dei kiwi si allarga – nel 2022 Zespri ha acquistato altri 170 ettari ad Aprilia per produrre kiwi giallo – quella delle responsabilità sembra rotta. Come Zespri, anche le Organizzazioni dei produttori che hanno deciso di rispondere alle domande di IrpiMedia, dichiarano di non avere un ruolo nello sfruttamento dei lavoratori. 

Una di queste sottolinea che il suo obiettivo primario è “commercializzare il prodotto ortofrutticolo prodotto dalle aziende socie e valorizzarlo nel miglior modo possibile”, pertanto non ritiene di avere «niente a che vedere con le responsabilità e gli obblighi delle aziende agricole fornitrici”.

Nonostante questo, sottolinea che le “aziende agricole fornitrici siglano un accordo e garantiscono il rispetto dei requisiti etico-sociali basati sulle normative vigenti e codici di condotta internazionali”. Il consorzio in questione sostiene di eseguire verifiche ispettive a campione. In caso di violazioni, il rapporto di fornitura verrebbe interrotto, ci dicono.

La tratta dei Sikh

Nei templi sikh di Velletri, Cisterna e Pontinia, la parola “debito” viene sussurrata con ritrosia nel corso delle interviste. Per arrivare in Italia hanno pagato fino a 15mila euro. Somme versate agli intermediari indiani, in Punjab, in vari modi: chiedendo prestiti a conoscenti e parenti oppure vendendo terre, mucche e gioielli di famiglia. Da alcuni il debito contratto viene estinto in tre anni circa.

Il salario mensile di chi fa lavori manuali in Punjab è, in genere, tra gli 80 e i 120 euro. Per questo l’Italia, dove un bracciante indiano prende, in media, 863 euro al mese, rappresenta una meta ambita. Con i soldi risparmiati e mandati in India si può sistemare la propria casa oppure comprarne una più grande e, in certi casi, far studiare i figli.

I sacrifici non sono solo la lunga lontananza dalla famiglia, la condivisione dell’appartamento, a volte di una sola stanza, con altri quattro o cinque connazionali, e il risparmio estremo sul cibo quotidiano. A pesare sulle condizioni di vita ci possono essere le buste paga grigie che rendono difficile ottenere o mantenere il permesso di soggiorno e quindi essere regolari sul territorio italiano. “Alcuni padroni retribuiscono formalmente attraverso un bonifico sul conto corrente ma, allo stesso tempo, obbligano il lavoratore ad andare al bancomat a prelevare 200-300 euro per restituirglieli brevi manu” sottolinea Omizzolo, inquadrando le “abitudini” nei campi dell’Agro Pontino. “Alcuni commercialisti fanno arrivare il bracciante direttamente nei loro uffici e lo obbligano a restituire, per esempio, i contributi versati allo Stato dal datore di lavoro”.

Secondo il Rapporto illegalità e criminalità nelle filiere agroalimentari e nell’ambiente delle province del Lazio, il caporalato, si nasconde “dietro forme pseudo-legali”. Il 65 per cento dei lavoratori agricoli in Provincia di Latina con un contratto riceve i contributi per un numero di giornate inferiori a quelle svolte, il 4 per cento resta senza, il 10 per cento non sa se ne usufruirà. Solo il 15 per cento ottiene tutti i contributi dovuti mentre il 14 dichiara di lavorare completamente in nero.

Decreto flussi

Ranbir Singh non vede la sua famiglia da quattro anni, da quando è arrivato nell’Agro Pontino dopo avere pagato, prima di partire, 8.000 euro a un conoscente che li ha recapitati a un indiano della provincia di Latina. In Punjab, dove faceva il meccanico di auto – per poco più di 100 euro al mese – ha lasciato la moglie e un figlio di quattro anni. L’intermediario di Latina si è occupato delle carte per il permesso di soggiorno, ottenuto tramite il Decreto flussi. L’azienda di riferimento produceva kiwi, ma si è trattato soltanto di un contratto fittizio: Ranbir Singh lì non ci ha mai lavorato.

Con il decreto flussi il governo italiano, ogni anno, stabilisce il numero massimo di cittadini stranieri non comunitari che possono fare ingresso in Italia per lavorare con un contratto. La domanda per un operaio agricolo straniero ancora residente all’estero può essere presentata da un datore di lavoro italiano o straniero regolarmente soggiornante. I sindacalisti delle tre sigle confederali Flai Cigl, Fai Cisl e Uila Uil sostengono che il sistema del Decreto flussi andrebbe riformato. Giorgio Carra, segretario provinciale della Uila Uil non usa mezzi termini sul sistema: “Si presta al gioco dell’illegalità di faccendieri pagati per poter procurare ai lavoratori il contratto e l’alloggio”.

Stando a quanto riportato da Amandeep Singh e da altri lavoratori, infatti, per arrivare in Italia con il Decreto Flussi, una delle opzioni è ottenere contratti in ditte nelle quali poi non si va a lavorare per davvero. Quando questo contratto scade, per rinnovare il permesso di soggiorno, se ne acquista un altro da un’azienda diversa. E così per numerose altre volte. A fare da intermediario tra i lavoratori e le imprese spesso ci sono degli indiani.

Il sistema dei permessi di lavoro legati al Decreto Flussi trova riscontro visitando le agenzie di viaggio di Jalhandar, in Punjab. Un’agenzia, in particolare, assicura di avere una lista di sessanta aziende italiane disponibili a fare contratti. Un’altra, invece, al momento non ha contatti con aziende libere e offre altre vie: raggiungere l’Italia attraverso Malta, ad esempio, dove con un visto di lavoro ci si può fermare per pochi mesi e poi spostarsi nel resto dell’Unione europea. Ce ne sono che promuovono la Romania come paese d’arrivo da cui poi muoversi verso l’Italia. Esiste poi la rotta illegale della cosiddetta “donkey route”, intrapresa da più di un bracciante, che prevede, ad esempio, un volo fino al Qatar e poi da lì un viaggio in camion per arrivare in Turchia, risalire verso i Balcani, attraversare l’Ungheria, l’Austria e arrivare in Italia.

Un sistema difficile da smantellare

Le lotte sindacali iniziate nel 2016 hanno portato a un aumento delle paghe orarie – dai 2,50 ai 6 euro l’ora – ma, secondo esperti come Omizzolo, hanno reso il sistema di sfruttamento più sofisticato (con il coinvolgimento di commercialisti e avvocati) e difficile da smantellare. I braccianti hanno paura di denunciare. Un timore motivato dalle aggressioni subite da chi ha provato a ribellarsi alle irregolarità, come Gill Singh, colpito alla testa con una spranga e gettato in un fosso dai suoi datori di lavoro nell’estate del 2020, perché aveva richiesto le mascherine.

Giorgio Carra della Uila Uil ha una serie di vertenze aperte sul recupero delle retribuzioni non pagate e sul rispetto del contratto: “Per lo sfruttamento vero e proprio facciamo intervenire la procura e l’ispettorato, soprattutto quando abbiamo il sentore che venga perpetrato da aziende cooperative”. Da verifiche di IrpiMedia nel corso dei mesi scorsi, non risultano però denunce o processi a carico dei consorzi agricoli.

I sindacati, comunque, ribadiscono la necessità di evitare generalizzazioni: “La provincia di Latina ha tante aziende virtuose capaci di valorizzanre i propri lavoratori”, sostiene Islam Kobt, segretario della Fai Cisl, citando la Rete del lavoro agricolo di qualità (tavolo aperto all’interno del progetto Laborat della Fislas, l’ente bilaterale che riunisce Confagricoltura, Coldiretti, Cia, Fai Cisl, Flai Cgil e Uila Uil). La Rete è composta dalle aziende ligie alle norme ed esenti da segnalazioni per sfruttamento. Grazie ai comportamenti corretti, hanno diritto ad alcuni vantaggi, inclusi i microcrediti.

Senza volere generalizzare la situazione di un territorio complesso, va rilevato che nel solo mese di ottobre 2022, in quattro giorni, due operai agricoli di nemmeno venticinque anni si sono tolti la vita nelle aziende dell’Agro Pontino dove erano impiegati. I suicidi rientrano in un microfenomeno che va avanti da diversi anni, rilevato anche da Omizzolo, e dovuto alla disperazione per le terribili condizioni di vita e di lavoro.

Per arginare questo fenomeno, l’associazione Tempi Moderni, di cui fa parte Omizzolo, nel 2020 ha dato vita al progetto Dignità-Joban Singh, dal nome del tredicesimo sikh suicidatosi nella provincia di Latina negli ultimi tre anni. Joban Singh si è tolto la vita dopo avere subito gravi ingiustizie. È entrato in Italia pagando novemila euro a un trafficante indiano, è stato sfruttato in una delle maggiori aziende agricole dell’Agro Pontino e ha subito il rifiuto da parte del padrone italiano alla sua richiesta di emersione dall’irregolarità, prevista dall’articolo 103 del Decreto rilancio (D.L. n. 34/2020). Con il progetto, l’associazione vuole offrire assistenza legale gratuita alle donne e agli uomini sfruttati nell’Agro Pontino. Una via per lottare contro i “padroni” e chi li sostiene e provare a ricostruire la filiera delle responsabilità.

* I nomi dei lavoratori sono stati cambiati per proteggere la loro identità.

Questa inchiesta è stata realizzata con il sostegno del programma Modern Slavery Unveiled di Journalismfund.
👉 L'articolo originale su IrpiMedia

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