Una lezione per gli storici del futuro

Europa, Russia e Stati Uniti sperano di risolvere la crisi siriana con una conferenza internazionale, come se fossimo ancora ai tempi del congresso di Vienna. Ma oggi sono gli attori regionali ad avere la preminenza sugli equilibri tra le potenze.

Pubblicato il 7 Giugno 2013 alle 11:43

Alcune crisi possono rappresentare dei veri e proprio casi da manuale per chi studia la diplomazia e le relazioni internazionali. La Siria è uno di questi. In particolare in questo momento in cui si parla solo della prossima conferenza internazionale, che ha più affinità con la diplomazia classica del Diciannovesimo secolo e dell'inizio del Ventesimo che del periodo attuale.

Rispettando il vecchio adagio "se vuoi la pace, prepara la guerra", ovunque si lucidano le armi, alla vigilia di un'ipotetica "tavola rotonda" che dovrebbe riunire tutte le parti e decidere sul futuro del paese.

L'Unione europea ha deciso di non prolungare l'embargo sulla consegna di armi alla Siria (cioè agli insorti), ma solo il Regno Unito e la Francia si sono impegnate attivamente in questo senso. Mentre gli altri paesi dell'Unione hanno espresso in modo più o meno accentuato i loro dubbi sull'utilità di un impegno reale nella guerra civile, Londra e Parigi sono riuscite a ottenere questa decisione. Ma il prezzo di questa operazione è l'ennesima dimostrazione dell'inesistenza di un'Unione europea unita sulla scena internazionale.

L'incapacità di mettersi d'accordo a causa di interessi diversi è evidente. Non si tratta di calcoli strategici ma della buona volontà di interessarsi a un problema. Come in passato Regno Unito e Francia si comportano da grandi potenze perché ritengono di dover partecipare agli eventi di importanza mondiale. Al contrario gli altri paesi sono indifferenti o hanno paura di impegnarsi in eventi che per lo più non li riguardano.

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Ovviamente negli annunci di aiuto agli oppositori di Assad c'è un motivo politico. Ma la questione di inviare armi o meno rimane aperta, e il fatto di parlarne significa che l'uso della forza rimane un'opzione possibile. In altre parole, se non ci sarà un accordo in occasione di Ginevra-2, ci sarà la guerra fino alla vittoria finale. Il principale istigatore della fine dell'embargo sulla consegna di armi agli insorti, William Hague, lo dice chiaramente: bisogna fare pressione sul regime.

Si tratta della stessa logica che anima la Russia, poiché quest'ultima non conferma né smentisce la fornitura a Damasco dei missili terra-aria S-300 e di altre armi sofisticate. Tutto ciò viene detto apertamente: i rapporti di forza saranno mantenuti. È quindi inutile immaginare che in caso di fallimento dei negoziati politici, la questione possa essere risolta con i mezzi militari.

In linea di principio una tattica del genere non è priva di logica: le parti che bisogna riunire intorno a un tavolo devono sentire la spada di Damocle che pende sulla loro testa. Le riflessioni pubbliche di Washington sulle possibili no-fly zone sopra la Siria hanno le stesse finalità. Che cosa rappresenti una no-fly zone e a che cosa porti una tale decisione lo abbiamo visto con l'esperienza della Libia. Ed è proprio per evitare che questo si ripeta che la Russia promette di consegnare (e forse lo ha già fatto) dei sistemi di difesa antiaerea, così da rendere molto difficile un'ipotetica operazione. Molto probabilmente gli Stati Uniti non vieteranno il sorvolo della Siria, ma solo a condizioni ben precise, così da rendere le parti più accomodanti.

Tuttavia l'effetto potrebbe essere l'opposto. Per ora sembra che i contendenti siano arrivati alla stessa conclusione: qualunque cosa succeda non saranno né abbandonati né indeboliti, di conseguenza vale la pena resistere. Bashar al Assad e i suoi oppositori capiscono che i loro protettori, rispettivamente la Russia e l'Occidente, non possono rifiutarsi di dare il loro sostegno senza offuscare la propria immagine.

Dayton vs Rambouillet

In effetti sia per Mosca che per Washington la Siria è una questione di principio. La Russia difende i leader dei paesi laici (indipendentemente dal loro livello di autoritarismo) e la non ingerenza negli affari interni di un paese terzo, cercando di far dimenticare lo sgradevole precedente libico al quale ha contribuito [Medvedev era ancora presidente quando la Russia, contro ogni previsione, si è astenuta in occasione del voto all'Onu sull'intervento aereo occidentale].

Da parte occidentale ci si dibatte fra schemi ideologici secondo i quali da un lato c'è un "popolo in rivolta" e un "tiranno sanguinario"; dall'altro il desiderio di consolidare il modello di soluzione dei conflitti che si è gradualmente definito dopo la guerra fredda, cioè scegliere "lo schieramento giusto" e aiutarlo ad arrivare al potere. Di conseguenza il rifiuto di sostenere "i propri alleati" rischierebbe non solo di andare contro i propri interessi, ma finirebbe per essere una concessione ideologica tale da ferire l'amor proprio di questi paesi.

Le conferenze di pace del passato, fino a quelle di Yalta e Potsdam, erano incentrate su una grande questione, cioè la divisione del mondo. Le conferenze più recenti sono state quelle legate ai Balcani. Si tratta degli accordi di Dayton sulla Bosnia, nel 1995, e della crisi del Kosovo nel 1999. Non è inutile ricordare queste due esperienze perché offrono per il caso siriano due possibili scenari. Fra i due quello di Dayton è il più positivo. Gli Stati Uniti e l'Unione europea, con l'aiuto di una Russia all'epoca indebolita, avevano riunito i belligeranti e li avevano costretti a costruire un modello di organizzazione per la Bosnia-Erzegovina. È su questo esempio che puntano gli ottimisti, che credono nella possibilità di un successo del "Ginevra-2".

I pessimisti invece si ricordano del febbraio 1999, quando con enormi sforzi diplomatici è stata organizzata la conferenza di Rambouillet per la soluzione del conflitto del Kosovo. Una conferenza che non ha dato alcun risultato. L'accanimento reciproco si era tradotto in un'estrema tensione: da un lato l'Esercito di liberazione del Kosovo che grazie al sostegno della Nato era concentrato sulla vittoria militare; dall'altro Belgrado, che non poteva immaginare di spartire il potere con dei "terroristi". Tuttavia la conferenza si era conclusa senza una rottura aperta. Poi la posizione dei mediatori (soprattutto i membri della Nato) si era fatta più forte e Belgrado si era vista imporre un ultimatum. Il suo rifiuto di obbedire aveva provocato l'avvio della campagna militare dell'alleanza, un mese e mezzo dopo l'inizio dei negoziati di pace in Francia. Non si tratta qui di stabilire un parallelo con la Siria, ma lo scenario di una rapida escalation della violenza non deve essere escluso se nessun progresso sarà ottenuto (un progresso che effettivamente sembra poco prevedibile).

Interessi incomprensibili

Oggi però la Russia ha un ruolo ben diverso. Nel 1999 Mosca aveva protestato energicamente ma senza opporsi realmente. Di recente il Cremlino ha fatto sapere che vuole partecipare all'equilibrio di potere e non permetterà alcun intervento militare contro i propri alleati.

C’è una differenza fondamentale fra la situazione siriana e quelle precedenti. Organizzando il processo di pace, implicandosi nei conflitti locali, le grandi potenze hanno sempre perseguito degli interessi concreti, avendo un'idea chiara dei loro interessi. Gli stati dell'Europa occidentale, con il sostegno attivo degli Stati Uniti, hanno modificato il panorama strategico europeo conformemente alle loro rappresentazioni del dopo guerra fredda. E la Jugoslavia di Milosevic era un evidente ostacolo a questa modifica.

Ma oggi a parte le questioni di status evocate in precedenza, gli interessi concreti e diretti degli Stati Uniti, dell'Europa e della Russia in Siria sono incomprensibili. L'allargamento della sfera di influenza nel Medio Oriente attuale è un'idea quasi utopica. Tutte le potenze esterne cercano freneticamente di reagire in modo adeguato ma sempre a posteriori; si adattano agli eventi senza poter applicare la loro volontà e i loro desideri. Non si parla nemmeno di strategia. Nel frattempo è interessante osservare che coloro che hanno degli interessi concreti nella regione, cioè i paesi vicini dall'Iran fino all'Arabia Saudita e al Qatar, non si pronunciano sulla conferenza di Ginevra. Tuttavia la possibilità di un dialogo tra le parti dipende da loro.

In passato i giochi delle grandi potenze erano indissolubilmente legati ai piccoli intrighi degli attori locali, che rimanevano in secondo piano. Oggi è il contrario. I processi "locali" hanno la loro logica e la partecipazione dei "grandi" si fa su un piano parallelo, poiché gli uni e gli altri cambiano continuamente di ruolo. Per i futuri storici quello che succede attualmente è una preziosa fonte di materiale, mentre per i diplomatici si tratta di un problema insolubile.

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