Gerusalemme est, novembre 2009: la prima pietra della colonia Nof Tzion (AFP)

Una questione capitale

La presidenza svedese dell'Ue propone che i Ventisette riconoscano Gerusalemme est come capitale del futuro stato palestinese. Questa idea, vivamente osteggiata da Israele, porrebbe fine a una situazione pericolosa.

Pubblicato il 8 Dicembre 2009 alle 15:21
Gerusalemme est, novembre 2009: la prima pietra della colonia Nof Tzion (AFP)

In questo autunno i motivi di discordia fra la Svezia e Israele sono stati numerosi. I contrasti sono cominciati con un duro articolo di Donald Boström su Aftonbladet a proposito di un presunto traffico di organi palestinesi organizzato da Israele. Un'accusa forse poco seria, ma il fatto che Israele abbia cercato di servirsene come strumento di politica estera dimostra una totale mancanza di misura e buon senso da parte dello stato ebraico.

Il ministro degli esteri svedese Carl Bildt ha poi gettato benzina sul fuoco esprimendo il suo sostegno al rapporto Goldstone sui crimini di guerra compiuti durante gli scontri dell'inverno scorso a Gaza. Il viceministro degli esteri israeliano, Danny Ayalon, ha minacciato di richiamare l'ambasciatore israeliano in Svezia.

Nelle ultime settimane si è prodotta una terza crisi nelle relazioni fra Svezia e Israele: lo stato ebraico accusa Bildt di cercare di imporre all'Unione europea una nuova politica sulla questione di Gerusalemme.

Da un punto di vista concreto, l'accusa non può dirsi infondata: è durante la presidenza svedese dell'Unione che l'Europa ha dichiarato per la prima volta in modo deciso che Gerusalemme è destinata a diventare la capitale di due stati. E poiché nessuno stato ha ceduto all'intensa campagna di lobbying condotta da Israele, questa richiesta è stata ribadita in occasione della riunione a Bruxelles dei ministri degli esteri l'8 dicembre.

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Rompere il silenzio

Tra i vari punti di attrito che esistono tra Bildt e i suoi avversari israeliani, quest'ultimo è di gran lunga il più importante. La soluzione dei due stati dipende da Gerusalemme, ma la situazione nella parte orientale della città è sempre più critica. Israele pensa che la nuova politica dell'Unione europea anticipi le discussioni future. In realtà si tratta solo di congetture. Dopo l'occupazione di Gerusalemme est nel 1967 e l'annessione nel 1980, lo stato ebraico ha fatto di tutto per consolidare l'immagine di Gerusalemme come "capitale eterna e indivisibile di Israele".

Un numero crescente di israeliani, appartenenti o meno all'establishment, si rende conto che questa posizione non è credibile e che una divisione della città sarà inevitabile. Ma nell'attesa di un accordo di pace che non arriva, l'accerchiamento di Gerusalemme est continua.

Di fronte a questa situazione il resto del mondo deve protestare. Non abbiamo bisogno di nuove discussioni, che saranno semplici pretesti finché la destra continuerà a governare in Israele e i palestinesi rimarranno divisi. Il resto del mondo deve rendersi conto della situazione di Gerusalemme, e il fatto che Israele abbia bloccato la costruzione di nuove colonie non vuol dire nulla fino a quando sarà esclusa la regione più importante di tutte.

L'Unione europea deve togliere il segreto sui rapporti dei suoi consolati in Israele, in cui è descritta la situazione allarmante di Gerusalemme est, e non estare più in silenzio. Se Bildt riuscirà a convincere i paesi europei a chiedere in modo deciso una divisione di Gerusalemme, sarà il suo più grande atto come ministro degli esteri.

OPINIONE

Smontare il mito sionista

“L’ostinazione a identificare l’ebraicità universale con una piccola striscia di territorio è assolutamente controproduttiva", sostiene Tony Judt, direttore del Remarque Institute di New York, sulle pagine del Financial Times. Citando il controverso libro del professore israeliano Schlomo Sand intitolato The Invention of the Jewish People, che smonta il mito sionista di un popolo religiosamente ed etnicamente compatto, Jodt esorta invece Israele a trovare una nuova identità, che non si regga sulla “rivendicazione esclusiva dell’appartenenza ebraica” riducendo di fatto tutti i cittadini e i residenti di Israele non ebrei a “cittadini di seconda categoria”.

Respingendo la soluzione dei due stati per la questione palestinese – che lascerebbe “Israele intatto nelle proprie etno-delusioni", Judt sollecita gli ebrei della diaspora che abitano in America settentrionale ed Europa a prendere le distanze da Israele, che così sarebbe costretto “a prendere atto dei propri limiti e a farsi altri amici, preferibilmente tra gli stati confinanti”. Una simile iniziativa – analoga a quella della comunità irlandese in America che negli anni novanta congelò le donazioni all’Ira – fungerebbe da freno “all’esclusivismo etnico e al pregiudizio nazionalista”, un passo avanti basilare per risolvere il “pasticcio israelo-palestinese” che ha le sue premesse in presunte motivazioni etniche.

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