Intervista Finanza verde

Lucie Pinson, di Reclaim Finance: “Le banche europee continuano a remare contro gli obiettivi climatici” 

La transizione verde costa, e cara: la sola Unione europea dovrà investire più di 406 miliardi di euro all’anno da qui al 2030, per esempio. In questo contesto, qual è il ruolo della finanza cosiddetta verde, attore centrale – e criticato – del processo? Ne abbiamo discusso con Lucie Pinson, esperta di transizione energetica e fondatrice dell’Ong Reclaim Finance.

Pubblicato il 30 Maggio 2024 alle 12:57
Lucie Pinson - Reclaim finance

Lucie Pinson si occupa di transizione verde e la finanza: ha gestito importanti campagne per sensibilizzare il settore finanziario e la società civile in materia di ingiustizie sociali, ambientali e climatiche. Nel 2020 ha fondato la Ong Reclaim Finance che si batte per la decarbonizzazione del settore finanziario e per la giustizia sociale e climatica, in precedenza ha lavorato l’associazione Les Amis de la Terre e The Sunrise Project. Nello 2020 è stata anche insignita del prestigioso Goldman Environmental Prize (noto come il “premio Nobel dell’ecologia”). 

Voxeurop : In che modo la finanza può diventare uno strumento critico o addirittura leva nella lotta contro il cambiamento climatico?

Lucie Pinson: Il denaro è il nervo di questa battaglia, naturalmente. Cosa voglio dire? Affinché un progetto infrastrutturale possa essere avviato – sia esso una scuola, una ferrovia, un ospedale, ma anche una piattaforma petrolifera o una centrale a gas – c’è bisogno di finanziamenti, e di una o più coperture assicurative.

Se dobbiamo frenare l’avanzata del cambiamento climatico, e proseguire la transizione verso delle società più sostenibili, è fondamentale fare investimenti massicci: l’Unione europea deve investire annualmente più di 406 miliardi di euro da qui al 2030. La transizione ecologica è possibile solo se ha i finanziamenti e le coperture assicurative necessarie. Gli attori finanziari hanno una responsabilità precisa, inscritta nell’Accordo di Parigi, che prona per convergenza dei flussi economici verso gli obiettivi climatici. Concretamente, questo significa agire su due piani: da un lato, aumentare il sostegno finanziario alla transizione verde, e allo stesso tempo smettere di sovvenzionare le attività inquinanti (che devono sparire gradualmente). Un altro concetto da tenere a mente è la sobrietà: non si puo’ impedire il disastro ecologico senza ridurre il consumo energetico su scala globale. 

Ed è qui che il settore finanziario può agire, poiché questa impresa può essere portata a termine solo se beneficia di investimenti specifici. Va detto pero' che il ruolo della politica è importante: lo sforzo va chiesto prima ai più ricchi, dal momento che hanno un impatto ecologico più importante, invece che a coloro a cui non vengono garantiti i diritti fondamentali.

Per il settore energetico, l'obiettivo è quello di avere, entro il 2023, per ogni 10 euro di investimenti, sei euro nella produzione di elettricità sostenibile e un euro destinato ai combustibili fossili.

Al di là degli importi, c'è la questione della qualità, di ciò che viene effettivamente finanziato con questo denaro. I sei euro dovrebbero concentrarsi sull'energia eolica e solare, sullo sviluppo della struttura e dello stoccaggio. Per quanto riguarda l'euro per i combustibili fossili, questo dovrebbe essere speso per le infrastrutture esistenti, in particolare per tecnologie che riducono le emissioni, ma assolutamente non per lo sviluppo di nuove infrastrutture.

In conclusione, l'allocazione dei fondi deve essere fatta con molta attenzione. Ma bisogna essere chiari: non si tratta di logistica, ma di scelte politiche. Le soluzioni esistono e se la maggior parte degli operatori finanziari continua a sostenere massicciamente l'espansione dei combustibili fossili, è con cognizione di causa, perché ha deciso di dare priorità ai profitti a breve termine rispetto a qualsiasi considerazione sociale o ambientale.

Di cosa (e di che cifre) si parla quando si fa riferimento alla “finanza verde”? L’espressione potrebbe facilmente suonare come un ossimoro. 

L'aumento di attività a sostegno della salvaguardia del clima portate avanti dai soggetti finanziari internazionali va di pari passo con la diffusione del discorso riguardante la “finanza verde” o “finanza sostenibile”. Queste espressioni vengono perlopiù utilizzate in riferimento ai prodotti e servizi finanziari creati per incoraggiare le attività cosiddette “verdi”, quindi sostenibili o scelte in virtù di criteri non economici, in contrasto con i prodotti finanziari classici che si basano esclusivamente su criteri finanziari (quindi sul maggior profitto). 

Al di là delle problematiche di greenwashing associate all’uso improprio di questi due termini, la “finanza verde”, intesa come appena descritta, non risolve certamente cause del cambiamento climatico: il rilascio massivo nell’atmosfera di gas serra e i finanziamenti alle attività inquinanti, incompatibili con l’obiettivo di impedire che il riscaldamento globale superi 1,5 gradi. 


“Le soluzioni esistono e se la maggior parte degli operatori finanziari continua a sostenere massicciamente l’espansione dei combustibili fossili, è con cognizione di causa, perché ha deciso di dare priorità ai propri profitti a breve termine rispetto a qualsiasi considerazione sociale o ambientale.”


Il termine, “finanza verde” stesso suona quasi come un’ammissione di colpa da parte del comparto finanziario, consapevole che la finanza tradizionale si trova agli antipodi degli obiettivi sostenibili. Il problema di fondo è che “finanza verde” è un termine su cui si sono incentrati tutti gli sforzi e i dibattiti degli ultimi anni, contribuendo a distogliere l’attenzione sui finanziamenti e l’impatto negativo che stanno avendo concretamente sulla situazione. E anche se si stanno diffondendo le eco-etichette e ci si sforza sempre più, sia a livello nazionale che europeo, per regolamentare l’utilizzo delle denominazioni dei prodotti “verdi”, si è comunque fatto poco o niente per impedire agli attori finanziari di sostenere iniziative e/o aziende con modelli di business opposti all’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi.    

Questo fa il gioco degli interessi degli operatori finanziari, soprattutto di quelli dipendenti dall'industria dei combustibili fossili. In questo modo si distoglie l’attenzione dai loro servizi finanziari, dannosi per il clima; ma ancora peggio: la finanza verde offre loro l'opportunità di sviluppare nuovi mercati e nuove opportunità di crescita e profitti, migliorando al contempo la loro reputazione di “attori impegnati per il clima”.

Esistono già degli strumenti, come il Regolamento europeo sulla finanza verde (SDFR), che dovrebbero imporre alle banche standard rigidi per definire i prodotti finanziari da proporre agli investitori. Secondo diverse inchieste sulla “finanza verde” portate avanti da Voxeurop, questo regolamento è stato redatto con un linguaggio fuorviante e ambiguo che permette di aggirare le norme e interpretarle in virtù dei propri interessi. Secondo lei qual è il ruolo delle istituzioni? Quale peso in vista elezioni per il Parlamento europeo di giugno

Il mandato europeo che sta per concludersi è stato quello del Green deal; alla prossima legislatura spetterebbe potenziarlo e, soprattutto, finanziarlo adeguatamente. Fino ad ora, la tematica è stata appositamente accantonata, e anche se organizzazioni come l’Agenzia internazionale dell’energia (AIE) e la Commissione europea concordano sul fatto che circa l’80-85 per cento del fabbisogno finanziario per supportare la transizione debba provenire da privati, l’intervento delle autorità pubbliche sarà determinante per obbligare i soggetti finanziari ad allocare correttamente le risorse. 

Il denaro non manca, ma per destinarlo alle iniziative a favore dell’ambiente è necessario un intervento forte dei poteri pubblici in materia di regolamentazione e controllo. Bsogna fare un salto di qualità: da Direttive che si limitano a chiedere trasparenza e rendicontazione, si deve passare a delle normative che mettano al centro la politica e che dunque dettino la strada da percorrere alle istituzioni finanziarie e ai soggetti economici.

La legislatura europea che si appresta a chiudersi avrebbe certamente potuto rendere obbligatorio per gli attori finanziari adottare questi piani attraverso la direttiva sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità. Alla fine, però, i soggetti finanziari sono stati esentati dal provvedimento principalmente per merito dell’operato del ministero dell’economia e delle finanze francese e della sua presidenza.  

I cittadini, alle elezioni europee, dovranno esprimere la propria preferenza basandosi su ciò che i diversi partiti in corsa hanno fatto, votato e sostenuto in questo lustro. Noi di Reclaim France, così come altre associazioni simili, guardiamo al di là, e ci appelliamo a tutti quelli che si dicono pronti a impegnarsi per azioni a lungo termine: i cinque anni che ci apprestiamo a vivere saranno un periodo di battaglie volte a mettere la finanza europea al servizio della giustizia sociale e ambientale.


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In questo contesto, quali sono gli attori cruciali? Le banche restano al centro di queste questioni.  

Le banche restano un attore chiave, sono loro che aprono e chiudono il rubinetto dei finanziamenti. Persino i titoli di debito e le obbligazioni che vengono comprate dagli investitori devono essere emessi con il lasciapassare delle banche. Malgrado ciò, le banche europee si ostinano a remare contro gli obiettivi climatici internazionali e contro quelli dei rispettivi paesi Ue.

A seguito delle ultime elezioni Ue, le 15 principali banche europee hanno fornito più di 170 miliardi di euro alle circa 100 aziende di punta nella produzione di combustibili fossili. È bene ricordare che due terzi di questa cifra, destinata ai settori del carbone, del petrolio e del gas, è stata concessa dai quattro più grandi gruppi bancari francesi.

Dei 15 istituti di credito protagonisti di questi finanziamenti negli ultimi anni, solo uno si è impegnato a non promuovere più queste aziende in futuro, coerentemente con le raccomandazioni degli scienziati e le proiezioni dell’AIE. Al contrario, nessuno ha optato per stanziare i sei euro destinati alla produzione sostenibile di elettricità entro il 2030, contro un euro euro per i combustibili fossili. E solo ultimamente le banche riconoscono quanto rilevato dagli scienziati. 

Per citare un caso reale, l’amministratore delegato di Crédit Agricole Philippe Brassac, durante l’ultima assemblea generale del gruppo bancario ha riconosciuto pubblicamente che la crescita del settore petrolifero non è compatibile con l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi, aggiungendo che la banca non può fare orecchie da mercante e ignorare i nuovi progetti che riguardano gli idrocarburi sviluppati dai principali gruppi del settore. 

Ciononostante, Crédit Agricole riesce ugualmente a finanziarli e addirittura fornisce denaro destinato alla costruzione di impianti di rigassificazione di gas naturale liquefatto (GNL). Il gruppo BPCE, invece, ha chiuso recentemente un’operazione da 4,25 miliardi di euro con TotalEnergies. Questa cifra verrà destinata al petrolio e al gas, in particolare verso progetti per lo sviluppo di nuovi giacimenti e nuovi rigassificatori di GNL per cui TotalEnergies spende due terzi dei suoi investimenti.

Quali sono le soluzioni e gli strumenti che collettivamente possiamo usare per avere voce in capitolo? 

Le soluzioni ci sono, devono solo essere messe in atto. Perciò è necessario un rapporto di forza  con le istituzioni esistenti e il potere che incarnano. Noi proponiamo spesso di cambiare la propria banca, o comunque scegliere prodotti finanziari a favore del pianeta e dei diritti umani. Sono soluzioni efficaci che acquistano rilevanza a livello politico solo se la collettività le porta avanti e le amplia. Far sentire la propria voce e rivendicare il diritto di poter gestire le proprie finanze, oltre che favorire la mobilitazione collettiva, è ciò che farà la differenza.

Si può citare qualche passo avanti fatto?

Abbiamo accolto con entusiasmo l’inclusione del principio della doppia materialità, che prevede l’obbligo per le imprese di considerare l’impatto non solo finanziario, ma anche ambientale, delle proprie attività nella rendicontazione extra-finanziaria, nel quadro della direttiva europea CRSD. Tramite questo provvedimento, gli attori finanziari devono continuare a preoccuparsi dei rischi, soprattutto a livello climatico, a cui sono esposte le loro attività, ma devono anche tenere in considerazione l’impatto che tali azioni hanno sul clima, sul rispetto dei diritti umani e sugli ecosistemi più in generale. 

Purtroppo il rischio è che resti un esercizio sterile di trasparenza, in quanto sarebbe necessario estendere il principio anche all’obbligo di adottare dei piani di transizione verde che impongono ai soggetti finanziari di fare chiarezza su come intendono adeguare i loro investimenti agli obiettivi climatici europei e internazionali. Oltre a ciò, sarebbe opportuno rendere esplicito anche come intendono fare per smettere di  sostenere attività inquinanti e, nel contempo, promuovere soluzioni ambientali e aiutare la conversione green di settori, come quello dell’acciaio e dell’elettricità, che possono sopravvivere in futuro solo se intraprendono la strada della decarbonizzazione.   

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