Intervista Femminismo e politica

Ewa Majewska: “Il femminismo è una sfida a una società in cui ci sono persone privilegiate e altre svantaggiate”

Il femminismo è un movimento che si propone di comprendere prima e di reagire poi di fronte alle forme di oppressione e disuguaglianza. Due esempi li vediamo nella lotta delle donne iraniane e nei cambiamenti in atto in Polonia a seguito delle elezioni. Un’intervista a Ewa Majewska, filosofa e attivista femminista polacca.

Pubblicato il 5 Dicembre 2023 alle 17:04
Ewa Majewska

Ewa Majewska è una femminista, attivista e filosofa polacca. Insegna presso l’Università SWPS di Varsavia ed è autrice di Feminist Anti-Fascism, Counterpublics of the Common (Verso Books, 2021, non tradotto in italiano). L’intervista è realizzata in occasione dell’International Marxist Feminist Conference che si è tenuta nel novembre 2023 a Varsavia.

Che cos’è oggi il femminismo e quali sono le sfide principali che si trova ad affrontare?

L’idea più diffusa di femminismo mi pare sia quella della parità tra uomo e donna. Si tratta di una concezione liberale che implica che la missione femminista sarà portata a termine quando alle donne verrà riconosciuto lo stesso status degli uomini. Questo, secondo me, è un modo sbagliato di intendere il femminismo: non mi piace perché lo trovo estremamente riduttivo.

Il “vero” femminismo, o il femminismo che mi piace e voglio sostenere, è una teoria ma anche una pratica dell’agency, della capacità ad agire politica che parte dall’esperienza di aver socializzato, di essere stata educata e cresciuta come donna. È una teoria, una pratica ed una agency politica di cui abbiamo bisogno: ci serve innanzitutto per comprendere altri tipi di disuguaglianze e discriminazioni, e per trovare alternative al patriarcato capitalista neoliberale.

Per me il femminismo è basato su una versione socialmente costruita della vita, ovvero di un’esistenza nella quale ci viene insegnato che siamo esseri umani di seconda classe, e nella quale sviluppiamo le nostre rivendicazioni di emancipazione. Non si riduce quindi a una mera questione uomo-donna o maschile-femminile: è piuttosto una sfida a una società in cui ci sono persone privilegiate e altre svantaggiate, in cui “l’ordine naturale” è concepito come un qualcosa di gerarchico, con un leader (o Dio) al vertice, e al di sotto uomini e donne e schiavi, o persone svantaggiate, o persone discriminate per altri motivi (come l’orientamento sessuale, la classe sociale, la religione o l’etnia).

Dal mio punto di vista il femminismo è una dottrina ampia e non ho paura di dire che è fortemente ideologica. È una teoria forte che parte dall’esperienza di vita concreta e socialmente costruita dell’essere donna, e poi va ben oltre e include altre categorie discriminate, costruendo utopie o alternative che mettono in discussione lo status quo. Una parte importante del femminismo è anche la critica alla società esistente. E l’autocritica. Credo che bell hooks, una delle mie autrici femministe preferite, lo abbia detto molte volte: il femminismo ha questa sorprendente capacità, che talvolta può anche essere un ostacolo, di essere fin troppo critico nei suoi stessi confronti.

Di tutte le posizioni politiche, teorie e forme di attivismo, il femminismo è forse il più autocritico. E questo è un aspetto positivo, perché significa che cerchiamo di cambiare la nostra posizione teorica, le nostre rivendicazioni politiche, il nostro modo di fare attivismo, il nostro modo di essere. E di solito cerchiamo di vedere anche che cosa sbagliamo noi, e non solo chi critichiamo o contestiamo.

Riassumerei così la differenza tra la visione liberale e la mia idea di femminismo: le persone e i diritti al centro, invece della posizione sociale. Ci tengo a dire che gran parte di quella che considero la lotta femminista, ci insegna ad abbracciare altre lotte, comprese quelle delle persone trans e non binarie. 


Quello che le donne iraniane e i loro alleati stanno affrontando, da settembre dell’anno scorso, è in realtà un genocidio contro le donne


Dopo le elezioni, che cosa si aspetta che accada per i diritti delle donne in Polonia?

Per me il movimento si propone di costruire una società egualitaria, spinta dalla solidarietà e dall’altruismo e non dalla competizione e dalla lotta. Ciò detto, non dobbiamo abolire il conflitto  dalla nostra concezione del mondo: le persone femministe possono benissimo essere dialettiche o marxiste. Ma penso che una società giusta è quella in cui i contrasti vengono risolti con rispetto e cura delle istanze di ognuno.

Nei prossimi tre o quattro mesi assisteremo a diverse lotte, negoziazioni e tentativi di corruzione per convincere alcune persone a cambiare le loro posizioni politiche. Quella che ho appena descritto è una visione molto concreta delle manovre politiche che potrebbero verificarsi, ma c’è un altro aspetto fondamentale in relazione ai risultati delle elezioni: io e molte amiche femministe siamo concordi nell’affermare di esserci svegliate in una Polonia diversa, e questo è un fatto estremamente importante: negli ultimi otto anni abbiamo vissuto in un paese governato da due versioni di quello che definirei uno stato d’eccezione.

Da un lato, ci sono state molte decisioni politiche di stampo fascista, praticamente tutti i giorni. Per esempio la questione del confine tra Polonia e Bielorussia e le atrocità commesse in quelle zone contro i rifugiati razzializzati. Ci sono state leggi non solo antifemministe, ma fondamentalmente contro le donne, che miravano a un divieto di aborto ancora più stringente di quello in vigore. Ci sono state dichiarazioni, affermazioni e tentativi di cambiare la legge in senso anti-LGBTQI+. Ci sono anche stati momenti tragici legati al mondo del lavoro.


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Tante persone sono morte sul posto di lavoro per via dell’eccessiva stanchezza: medici, infermieri e almeno un dipendente Amazon, morto per logoramento durante il Covid. E il governo non ha fatto granché in queste situazioni. C’era questo stato d’eccezione, questo modo di trattare determinate categorie di persone come nemici, come se non fossero abbastanza umane. Ma abbiamo anche sofferto di quello che io chiamo questo stato d’eccezione, che consiste nella continua provocazione da parte di decisioni e dichiarazioni politiche che suscitano emozioni molto intense e difficili da gestire, come la paura, la rabbia e l’ansia.

Sono otto anni che viviamo in questo modo. Le persone con una posizione e una mentalità progressista ogni giorno si svegliavano di fronte a nuove atrocità e discorsi d’odio rilasciati dal governo. Ora che ci sono state le elezioni, la differenza più grande è che non ci svegliamo più con questa opprimente sensazione di ansia, di paura, di qualche nuova decisione o situazione politica inaccettabile da affrontare e combattere.

Dopo otto anni, non ne possiamo più di protestare per qualsiasi cosa: per le donne, per i diritti delle persone omosessuali, per i rifugiati, per i lavoratori. Tutte queste lotte sono state quotidiane e intense. Quindi direi che siamo all’opposizione, e non faccio molta distinzione tra sinistra e liberali, perché parecchi liberali erano davvero impegnati a criticare il governo conservatore. Non ce la facciamo più.

Da un lato ora stiamo per assistere a molti eventi comici sulla scena politica. Ma dall’altro almeno non dobbiamo più confrontarci con quella  stanchezza, quella rabbia, quella paura, ogni giorno.  Questo è un cambiamento fantastico.

Nel settembre 2022 abbiamo assistito a grandi proteste in Iran che riguardavano le lotte femministe. Esiste un femminismo islamico? È lo stesso tipo di femminismo che vediamo in Occidente?

Vorrei fare due osservazioni sul modo in cui mi pone questa domanda. Una è che lei descrive la situazione in Iran in modo un po’ blando. Quello che le donne iraniane e i loro alleati stanno affrontando dall’anno scorso, da settembre dell’anno scorso, è in realtà un genocidio contro le donne.

Non si tratta di condizioni di lavoro o capelli o cose del genere. Si tratta di un concreto tentativo dello Stato iraniano di eliminare le donne e di ucciderle. Quindi la situazione è molto più drammatica di come l’ha descritta. Faccio questa osservazione così da poter andare avanti con una visione leggermente diversa, perché non ridurrei la protesta in Iran ai capelli o all’istruzione o ai diritti delle donne. Direi piuttosto che è il diritto alla vita in quanto donna a essere a repentaglio.

Un’altra questione è che trovo problematico parlare di femminismo islamico, perché se vogliamo parlare di femminismo islamico, dobbiamo parlare anche di femminismo cattolico o ateo. Dovremmo dividere il femminismo per contesti religiosi, regionali o culturali e questa è una cosa da evitare: per esempio non si parla molto di femminismo europeo, perché viene percepito come molto vario. Esiste invece una letteratura femminista, che comprende un’intera varietà postmoderna.

Perciò sono piuttosto contraria all’idea di un femminismo islamico, perché nei paesi considerati islamici esistono persone marxiste, postmoderne, tradizionaliste. Insomma, i femminismi sono femminismi. Non sono influenzati solo dal contesto culturale. Nascono dal rifiuto delle disuguaglianze, dell’oppressione e della discriminazione delle donne, del modo di trattarle come risorsa, come fonte di lavoro invisibile e non retribuito, come fonte di potenza riproduttiva. E questa lotta è la stessa in Polonia, in Iran, negli Stati Uniti, in Brasile, ovunque. Secondo me il concetto stesso di femminismo islamico è un’idea che viene dall’Europa, un’idea basata sul nostro tentativo di comprendere il mondo a livello regionale. E questo, non credo che sia il modo migliore di vedere il mondo.

Dunque parlerei di donne in Iran, o di femministe in Iran, ma non le definirei femministe islamiche, perché potrebbero essere contro l’Islam, o potrebbero voler preservare una certa versione dell’Islam, ma allo stesso tempo potrebbero voler sostenere l’economia marxista, per esempio.

In questa regione percepita come islamica, ci sono donne del Rojava, donne palestinesi, donne iraniane. Ci sono donne in Iraq e in Afghanistan che stanno sviluppando versioni leggermente diverse del femminismo. Ma ciò che le accomuna non è l’Islam. Non è questo il problema principale per le femministe. Non c’è un luogo, nemmeno nei Paesi in cui è la religione più diffusa, in cui l’Islam sia la questione principale.

La preoccupazione principale di queste donne è sempre la condizione e lo status delle donne, ma anche di tutte quelle aree della cultura, della società, dell’economia percepite come femminili: la riproduzione sociale, il lavoro invisibile, il lavoro di cura e altre aree in cui ciò che è percepito come culturalmente femminile viene al contempo sfruttato e discriminato. E nelle regioni islamiche, come in ogni altra parte del mondo, le donne trovano risposte molto diverse a questi problemi.

Quel che ammiro delle donne dei Paesi islamici che lottano per i diritti, l’uguaglianza e il femminismo è che sono incredibilmente coraggiose. Il coraggio di essere femministe in quelle parti del mondo è davvero incredibile. Quindi forse questa sarebbe l’unica differenza, a mio avviso.

La versione originale e completa di questo articolo su Crossbordertalks

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