Perché Erdoğan ha rotto con l’Europa

Quando è arrivato al potere undici anni fa, il leader dell’Akp aveva fatto dell’integrazione europea la sua priorità. Ma alcune cocenti delusioni gli hanno ben presto fatto cambiare idea.

Pubblicato il 17 Giugno 2013 alle 14:52

Nel 2002 Recep Tayyip Erdoğan era in campagna per le elezioni che il suo partito avrebbe vinto qualche mese dopo. All'epoca parlava in modo concreto, della vita quotidiana, della libertà religiosa, culturale, linguistica e di espressione. L'atmosfera era popolare, piuttosto cordiale e meno nazionalista dei comizi degli altri partiti.

Prepararsi all'integrazione con l'Unione europea, diceva Erdoğan, era una fase necessaria e utile, il modo migliore per riformare il paese. Ai suoi interlocutori stranieri spiegava che il nuovo "Partito della giustizia e dello sviluppo" (Akp) si era trasformato, che aveva rotto con il suo passato islamista e antieuropeo.

Nella notte fra giovedì 6 venerdì 7 giugno, undici anni dopo, il discorso è completamente diverso. I punti di riferimento sono ottomani. Erdoğan si appella ad Allah per rendere "eterna" la "fraternità", l'"unione" e la "solidarietà" arabo-musulmana e parla dell'orgoglio nazionalista turco di fronte alle migliaia di persone, i suoi "soldati" andati ad ascoltarlo e che si dicono pronti ad andare a "schiacciare" questi "vandali".

Il primo ministro turco non ha invece detto una parola sulle rivendicazioni (contro gli eccessi autoritari del governo, contro un capitalismo sfrenato, per la libertà di espressione e di stile di vita) delle decine di migliaia di ragazzi che sono in piazza dal 31 maggio.

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Non una parola sull'Europa, citata solo qualche ora dopo in occasione della conferenza stampa congiunta con il commissario europeo Stefan Füle. Sebbene aperto alle "esigenze democratiche", Erdoğan accusa l'Unione europea di "ipocrisia" e di fare ricorso a una politica di "due pesi, due misure". Si lamenta della mancanza di progressi nei negoziati di adesione, di una "situazione tragicomica", e a chi critica la sua gestione della crisi attuale ricorda che la Turchia non deve di certo prendere lezioni di democrazia da "alcuni paesi europei". Erdoğan è sincero, le sue osservazioni sono offensive e ben poco diplomatiche. L'impressione è che il primo ministro turco abbia abbandonato qualunque speranza di integrazione europea per il suo paese.

Che cosa è successo? Il contrasto tra l'uomo del 2002 e quello del 2013 è evidente. Dobbiamo esserne sorpresi? O al contrario dobbiamo vedervi la prova, come affermano i suoi più irriducibili oppositori, della "lingua biforcuta" di Erdoğan e dell'Akp, che una volta liberati dall’influenza dell’esercito grazie al sostegno dell'Ue hanno avuto mano libera per avviare una politica neo-ottomana, lontana dai valori laici, moderni e occidentali?

Fin dal 2002 il governo dell’Akp ha continuato e amplificato una serie di riforme democratiche importanti che erano state iniziate dalla precedente coalizione, che hanno stupito i suoi oppositori più irriducibili. Bruxelles è sembrata apprezzare questa politica e la Turchia ha ottenuto una data, l'ottobre 2005, per l'apertura del processo sui negoziati di adesione all'Ue. L'Akp si presenta come un partito "democratico-musulmano" sull'esempio della tradizione democristiana, la più europea delle correnti politiche dominanti. L'adesione della Turchia all'Unione europea è l'antidoto allo scontro delle civiltà, dichiara Erdoğan.

Così la piccola minoranza rappresentata dagli ambienti liberali di sinistra, europeisti convinti, è diventata il suo primo sostenitore presso i diplomatici e i giornalisti occidentali, anche se in realtà nessuno conosceva bene le idee di Erdoğan. Finalmente trovavano nell'Akp un partito che aveva il coraggio e i mezzi per decapitare il nemico comune, l'esercito (autore di quattro colpi di stato trent’anni) e di ricacciarlo nelle sue caserme. Ma questo slancio ha subito una battuta d'arresto già nel 2004-2005, molto prima che la battaglia contro i militari fosse vinta. Per due motivi.

La prima è poco nota ma fondamentale per capire chi è Erdoğan. Nel 2003 la Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedh) ha confermato la dissoluzione da parte della Corte costituzionale turca del partito islamista Refah, giustificata perché nel contesto turco avrebbe rappresentato una minaccia per la democrazia, mentre la dissoluzione del partito comunista o autonomista era considerata contraria al diritto europeo. Erdoğan non ha capito questa differenza.

Ancora peggio, nel giugno 2004, quando la corte pronuncia la sentenza definitiva sul caso Leila Sahin, l'alta corte di Strasburgo ha confermato l'esclusione dall'università di questa ragazza per aver indossato il velo. Uno trauma per Erdoğan, le cui figlie sono dovute andare a studiare negli Stati Uniti per poter indossare il velo. Anche in questo caso il primo ministro non ha capito perché quello che è autorizzato nella maggior parte dei paesi europei, andare all'università con il velo, sia oggetto di una decisione contraria quando si tratta della Turchia.

Quando Erdoğan parla di "due pesi, due misure", ha in mente queste due decisione dell'alta corte europea. Due decisioni che hanno fatto vacillare in lui la fragile convinzione che l'Unione europea possa essere garante delle libertà religiose.

Spirale perversa

La seconda ragione è più nota. Nel 2005 i francesi dovevano pronunciarsi sul trattato che istituiva una costituzione europea. La candidatura turca era stata duramente criticata. La Turchia era stata strumentalizzata a fini elettorali dal presidente Nicolas Sarkozy, che proponeva - insieme alla Germania - un "partenariato privilegiato", cioè una formula priva di senso per l'unico paese candidato che avesse firmato un accordo di unione doganale con l'Unione europea fin dal 1995. Se Erdoğan voleva ridare ai turchi un orgoglio, un destino nazionale, si è trovato di fronte all'esatto contrario. Questo lo ha profondamente offeso e umiliato. Così si è innescata una spirale perversa.

La maggioranza dei leader turchi non crede più in un’Unione europea che li snobba. La Turchia ha quindi deciso di rallentare e poi di fermare, se non addirittura ostacolare, le riforme liberali e democratiche necessarie a un'integrazione troppo ipotetica. Così la Turchia rifiuta di applicare a Cipro, ormai membro dell'Unione europea e di cui continua a occupare la parte nord dell'isola, le regole dell'Unione doganale.

Dall'ottobre 2005 13 dei 33 "capitoli" sono stati aperti al negoziato, ma solo uno è stato chiuso. Dal giugno 2010 nessun nuovo "capitolo" è stato aperto, e nel luglio 2012 Ankara ha sospeso ogni contatto con l'Unione europea durante i sei mesi in cui la presidenza dell'Unione europea è stata occupata da Cipro, che Ankara continua a non riconoscere.

Nei confronti dell'Unione europea Erdoğan si trova ormai in una situazione quasi schizofrenica. Da un lato si sta rendendo conto che il sogno ottomano ha poco appeal presso i vicini arabi e che l'influenza della diplomazia turca nella regione deriva in gran parte dal solido sostegno occidentale al suo paese. Dall'altro è ormai quasi impossibile per Erdoğan riconoscere davanti alla sua opinione pubblica che l'integrazione europea rimane comunque - sia economicamente che diplomaticamente - la migliore opzione per la Turchia.

Dalla Turchia

Lo scontro fa male al governo

Continua il braccio di ferro tra il governo di Recep Tayyip Erdoğan e i manifestanti che da due settimane occupano il parco Gezi a Istanbul. Il 16 giugno la polizia ha disperso a colpi di gas lacrimogeno e flash-ball i circa diecimila manifestanti che si erano radunati nel parco e che hanno risposto alzando nuove barricate, mentre manifestazioni spontanee si sono svolte in diverse altre città del paese.

Intanto un recente sondaggio dell’istituto MetroPoll citato dall’edizione in inglese del quotidiano Zaman rivela che

i turchi sono sempre più preoccupati dallo sconfinamento del governo nello spazio democratico, e percepiscono una sempre maggiore interferenza nel loro stile di vita. […] Un intervistato su due (49,9 per cento) afferma che l’esecutivo si sta dirigendo verso uno stile di governo autoritario e repressivo, contro un 36 per cento convinto che il governo stia avanzando sulla via della democratizzazione. […] Per quanto riguarda le proteste del parco Gezi, secondo il sondaggio l’opinione pubblica turca attribuisce l’escalation del conflitto al governo e in particolar modo al primo ministro.

La popolarità del Partito giustizia e sviluppo (Akp) di Erdoğan è diminuita dell’11 per cento rispetto al giugno scorso e 7 punti percentuale nell’ultimo mese, pur restando la prima forza politica del paese.

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