Intervista Eurowhiteness

Hans Kundnani: “Non appena si riporta a galla il colonialismo europeo, la comunità si frantuma”

Nell’ultimo decennio, l’Europa ha iniziato a vedersi come una civiltà minacciata da agenti esterni. Nel suo ultimo libro Hans Kundnani sostiene che alla base di questa svolta, incentivata da eventi come l’annessione della Crimea alla Russia nel 2014 e la crisi dei rifugiati nel 2015, c'è una specifica nozione di identità europea.

Pubblicato il 2 Luglio 2024 alle 17:37
Hans Kundnani Voxeurop

Hans Kundnani è ricercatore presso il Royal Institute of International Affairs (Chatham House) di Londra, dove è membro associato del programma Europa, e il Remarque Institute della New York University. È autore di Utopia or Auschwitz. Germany’s 1968 Generation and the Holocaust, L’Europa secondo Berlino. Il paradosso della potenza tedesca ed Eurowhiteness: Culture, Empire and Race in the European Project.

Green European Journal: Nel suo libro Eurowhiteness, lei descrive la svolta “civilizazionale”  dell’Europa. Quando è iniziata?

Hans Kundnani: Non è del tutto chiaro e per molti non lo è tutt’ora. Ho cominciato a riflettere su questa svolta di “civilizzazione” tra il 2020 e il 2021. L’evento da cui tutto è partito è stata la crisi dei migranti del 2015. Nei vent’anni intercorsi tra la fine della guerra fredda e gli anni 2010, l’Ue si è posta in maniera prima espansiva e poi si è chiusa in modalità offensiva. All’inizio era fiduciosa e guardava avanti, immaginando un mondo che potesse essere creato a sua immagine e somiglianza. 

Why Europe will run the 21st century, il titolo del libro scritto da Mark Leonard, direttore dell’European Council on Foreign Relations, fornisce un ottimo quadro del contesto. Questa fase di ottimismo, non priva arroganza, si chiuse in concomitanza di una serie di eventi: la crisi dell’eurozona, la Primavera araba nel 2011 e infine l’annessione della Crimea alla Russia nel 2014. Di conseguenza, l’Europa va sulla difensiva.

In realtà, il cambio di atteggiamento era già in atto da alcuni anni, ma con lo scoppio della crisi dei rifugiati, tale postura ha assunto dei caratteri differenti. Ora non solo l’Ue si sente minacciata su più fronti, ma dopo il 2015 questi timori sono percepiti in termini di civiltà.

La svolta sta proprio qui: quando le minacce non sono più concepite ideologicamente, geopoliticamente o in maniera realistica, ma come uno “scontro tra civiltà” huntingtontiano (dove i conflitti avvengono tra blocchi di civiltà uniti dalla cultura), dove quella europea deve essere protetta a tutti i costi. 

Lei ritiene che alla base di questa svolta c’è la “Eurowhiteness”. A cosa fa riferimento?

Si tratta di un concetto che ho preso in prestito dal sociologo József Böröcz, che si avvale dell’espressione per descrivere la gerarchia interna alla cosiddetta “struttura della bianchezza”. Attraverso questo concetto Böröcz distingue gli europei occidentali da quelli che invece aspirano a diventare completamente bianchi, dunque gli europei orientali, meridionali e coloro che vivono nell’Europa centrale. Io recupero il termine ma lo utilizzo con un’accezione leggermente diversa. 

Per me, la “Eurowhiteness” rientra in un’idea etnica e culturale di Europa. Io penso che esistano numerose visioni etniche, culturali e civiche di Europa risalenti almeno all'Illuminismo.  

In particolare, parlo di “Eurowhiteness” per suggerire che l'Europa e la bianchezza hanno qualcosa a che fare l'una con l'altra, il che è abbastanza ovvio se ci si pensa, anche se non è qualcosa di cui la gente vuole parlare. Molti europeisti vogliono credere che l’identità europea su cui si fonda la stessa Ue non abbia alcun legame con questo concetto. Io invece vorrei sottolineare l’identità europea etnico-culturale è sopravvissuta anche successivamente alla seconda guerra mondiale, e ha addirittura contribuito al processo di integrazione europea. 

In quali politiche europee è più visibile questa svolta?

È sicuramente riconoscibile nella gestione dell’immigrazione. Dopo quanto accaduto nel 2015, l’Europa ha deciso di correre ai ripari costruendo un muro simbolico lungo il Mediterraneo. Non è una strategia così lontana da quella attuata da Trump durante il suo mandato presidenziale, l’unica differenza è che invece di un muro eretto lungo le frontiere con il Messico, qui il confine è un mare che divide il continente europeo da quello africano. Per Human Rights Watch, la politica migratoria europea è riassumibile in due parole: “Lasciateli morire”. Dal 2014 [quasi 30.000 persone sono morte o disperse] nel Mediterraneo. Più di [3000] nel 2023. Questo mare è il più grande cimitero d’Europa.


L’identità europea etnico-culturale è sopravvissuta anche successivamente alla seconda guerra mondiale, e ha addirittura contribuito al processo di integrazione europea


Con la nomina di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione europea è stata creata la figura del Commissario europeo per la “promozione dello stile di vita europeo”, che in origine era “per la protezione dello stile di vita europeo”. Al Parlamento europeo si accese addirittura un dibattito sulla scelta di quest’ultimo verbo; tuttavia, il vero scoglio resta l’espressione “stile di vita europeo”. Tra le sue mansioni, questo commissario è incaricato, tra le altre cose, di non far entrare i migranti in Europa. Dunque, il tema della migrazione non è solo ingestibile a livello politico, bensì rappresenta una minaccia al cosiddetto stile di vita europeo.

Questo linguaggio civilizzatore sta avanzando lentamente anche nelle questioni di politica estera europea. Sappiamo che da sempre l’estrema destra usa i migranti come un pericolo per la civiltà europea, ma ora anche le forze più moderate si avvalgono di tale narrazione. Ogni qualvolta si dibatte in materia di sovranità europea, autonomia strategica e geopolitica, torna il pensiero per cui l’Europa debba difendersi da ciò che mette in pericolo la sua civiltà. […] Il mio timore è che l’estrema destra e i centristi stiano confluendo nella stessa corrente di pensiero. 

Parlare di razza ci riporta inevitabilmente al colonialismo. Nei decenni di ripresa dalla Seconda guerra mondiale, i padri fondatori dell’Ue erano tutti europei bianchi, appartenenti a vecchie potenze imperiali, che hanno unito le forze nel tentativo di non perdere le ultime colonie. Perché questo passato da cui proviene l’Ue viene spesso dimenticato? 

A questa domanda si può rispondere tramite due approcci, comincerò con quello più cinico. Coerentemente con il nation-building del XIX secolo, l’Ue si è elevata a mito sfruttando una strategia consapevole riconducibile a ciò che definisco “region-building”. In tal modo, l’Ue si è cullata in questa idealizzazione che però omette alcune verità. Il passato coloniale di Francia e Paesi Bassi, una volta concluse le rispettive parabole coloniali, è piombato in quello che lo storico britannico Tony Judt definirebbe come un “baratro storico”. Entrambi i paesi sono andati avanti e hanno rimosso quella fase colma di sofferenza e umiliazione. Il colonialismo doveva essere accantonato in un angolo remoto della memoria storica. 

Ciononostante, esiste un approccio più comprensivo. Dagli anni Sessanta in poi, la Shoah si è convertita nel punto di convergenza che unisce la memoria storica dell’Ue e i suoi sostenitori. Tony Judt una volta scrisse che il riconoscimento dello sterminio degli ebrei è “il biglietto d’accesso per l’Europa contemporanea”. Esiste un distacco netto tra la memoria della Shoah e l’atto voluto di eliminare la storia del colonialismo, e tale discrepanza possiede una dimensione strutturale.

Il genocidio degli ebrei e la seconda guerra mondiale rientrano perfettamente nella narrazione dell’Unione europea come un progetto di pace. Questa è una versione di storia cara agli europeisti e ricca di dettagli sull’operato dell’Ue, come la dichiarazione Schuman, dove si cita un piano utile al superamento del conflitto secolare tra Francia e Germania che raggiunse il suo apice durante la guerra. In questo modo, si incoraggia gli europei a concepire la propria storia in relazione ai loro pari. Si tratta di una narrazione dell’Europa che racchiude al suo interno un’altra storia completamente dimenticata dal resto del mondo, quella che tratta i processi di interazione tra i diversi stati europei. Di conseguenza, quanto fatto dagli europei all’estero, e, parallelamente, l’influenza che il resto del mondo, in particolare Africa e Medio Oriente, ha esercitato sullo sviluppo europeo, viene rimosso.

Pensare la storia europea come un sistema chiuso che unisce gli europei permette di pensare ad essi come una comunità di destini. Ma non appena viene riportato a galla il colonialismo europeo, si ottiene l’effetto opposto: la comunità si frantuma. La Francia, ad esempio, deve fare i conti con il proprio passato in Algeria, nell’Africa centrale e occidentale e nella vecchia Indocina [oggi Cambogia, Laos e Vietnam]. Se cominci a pensare la tua storia come parte integrante di una particolare comunità di destino, in questo caso quella di chi ha colonizzato, senti di avere una responsabilità nei suoi confronti. Per cui, interessarsi alla storia coloniale incentiva gli europei a meditare sulle diverse comunità di destino. 

Ritiene che la reazione all’attacco russo in Ucraina sia stata dettata dalla nozione di civiltà?

Penso che sia alquanto evidente che la guerra è da recepire nel quadro del discorso sulla civiltà. La differenza nel trattamento riservato ai rifugiati ucraini rispetto a quello fornito ai rifugiati presenti nel resto del mondo è lampante. Una volta iniziato il conflitto russo-ucraino, Ursula von der Leyen disse: “L’Ucraina appartiene alla famiglia europea”. Un tale linguaggio non verrebbe mai utilizzato per parlare di Algeria, Marocco o Siria. Credo inoltre che l’Ue stia cercando di costruirsi attorno alla percezione della Russia come un’ “altra” civiltà. 

Tuttavia, esistono altri punti di vista da cui osservare la guerra: in maniera realistica, ideologica o addirittura neoconservativa, in quest’ultimo caso, come uno scontro globale tra democrazia e autoritarismo. 

È possibile scindere il sostegno, diciamo, alla sovranità europea dai discorsi che escludono altri? Non si può sostenere l'autonomia strategica europea e forse anche un esercito europeo senza scivolare nella difesa di politiche di confine razziste?

Tra le varie correnti di pensiero sulla geopolitica europea, vale la pena menzionarne due. La prima è molto concreta: in un mondo dove tutti si contendono la supremazia su più fronti, l’Europa deve stare al pari di potenze del calibro di Cina, Stati Uniti e Russia. Gli europeisti potrebbero trovare tale strategia impraticabile, dal momento che, in tal caso, dovrebbero abbandonare la superiorità morale che li contraddistingue. Ma in realtà non c’è nulla che non vada in questa corrente realista.

Esiste però un’altra tendenza priva di connotazioni civili, religiose ed etniche, di cui si fanno forti gli inglesi e gli americani, tradizionalmente interventisti, che si focalizza sul conflitto tra autoritarismo e democrazia. Non sono d'accordo con questa lettura, ma almeno l'elemento di civiltà è assente. Un'Europa potente con una politica estera europea coerente ed efficace non deve necessariamente essere una grande civiltà.

👉 L'Artiolo originale completo su Green European Journal 

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