Idee Il giornalismo dopo la Guerra fredda

Quale memoria condivisa, nell’epoca dell’impunità sovrana

Esisteva, prima del crollo dell’Unione sovietica una “grande narrazione” onnicomprensiva, che raccontava un tutto, dal comportamento degli stati, fino alla letteratura. Il crollo del mondo rappresentato dai blocchi, è stato anche quello di una narrazione globale. Il compito del giornalismo oggi è quello di riconnettere i punti di una narrazione globale, spiegare perché, da Manila a Mosca, fino alla Silicon Valley, siamo ancora, tutti, parte di una stessa storia.

Pubblicato il 27 Settembre 2022 alle 18:50

"Caro Peter. Ho atteso a lungo prima di scriverti: le notizie degli ultimi giorni sono un segno chiaro che rimanere in silenzio è, semplicemente, pericoloso. Tutti i miei ex colleghi sono in prigione. Per diversi mesi, per me e i miei amici, attirare l’attenzione dei mezzi d'informazione occidentali è stata dura.

Ora è successo qualcosa che ha attirato l'attenzione delle principali agenzie di stampa, ma mi chiedo quanto durerà. Esiste un modo per far sì che l’attenzione del mondo resti alta?  Mi sento come se fossimo tutti degli ostaggi, è  spaventoso. Ora tutto, qualsiasi crimine, è diventato possibile".

Ho ricevuto questo messaggio da un amico in Bielorussia nell'estate del 2021, un paio di giorni dopo che il dittatore Aliaksandr Lukašenko aveva mandato un caccia MiG a bloccare un volo internazionale che attraversava il "suo" spazio aereo, con a bordo un giornalista bielorusso e la sua  compagna, entrambi residenti in Lituania per motivi di sicurezza. 

Pochi giorni dopo il giornalista catturato, Roman Protasevich, è apparso alla TV di stato con  visibili segni di tortura, confessando il suo tradimento in scene che ricordano i processi staliniani.

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C'era stata un po' di indignazione in quella che ci piace chiamare la “comunità internazionale”; sono state usate le parole "dirottamento" e persino "atto terroristico". E poi, come temeva il mio amico, tutto quanto è stato dimenticato. Lukašenko non ha subito conseguenze particolarmente pesanti: appena il divieto per la compagnia aerea di stato bielorussa di volare in Europa. Il suo messaggio, rivolto a chiunque osi opporsi a lui, si è fatto sentire molto più forte: “Posso farti quello che voglio, ovunque tu sia”.

Ho faticato a rispondere all'appello del mio amico. Affinché un singolo evento venga ricordato, deve essere sostenuto da una storia più grande nella quale confluisce. Chiunque abbia giocato a Memory sa che si ricordano cose distinte inserendole in una sequenza in cui assumono un significato come parte di un insieme più grande. Allo stesso modo nei giornali e in politica una scena ha potere solo come parte di una narrazione più ampia.

Ma gli orrendi crimini di Lukašenko non sono stati, appunto, inseriti in una catena di significato più ampia. E non si tratta solo della Bielorussia. Dalla Birmania alla Siria, dallo Yemen allo Sri Lanka, abbiamo più prove che in qualsiasi altro momento storico di crimini contro l'umanità: torture, attacchi chimici, bombardamenti, stupri, repressione e detenzioni arbitrarie, ma le prove faticano ad attirare l'attenzione, e ancora di più a produrre conseguenze.

Abbiamo più possibilità di pubblicare; non siamo limitati dalla geografia; il nostro pubblico è potenzialmente globale. Eppure, la maggior parte delle rivelazioni o delle inchieste non riesce ad avere risonanza. Perché?

Cosa si è rotto nella narrazione? 

Il crollo dell'Unione Sovietica avrebbe dovuto indurci a compiere un'introspezione e stimolarci a non escludere nessuno dalla grande storia della lotta dei diritti umani contro la repressione politica. Per un momento, negli anni Novanta, è sembrato possibile. Con l'ondata di democratizzazione che ha rovesciato le dittature filo-sovietiche e filo-americane in tutto il mondo; con l'istituzione della Corte penale internazionale all'Aja nel 1998; con gli interventi umanitari condotti con successo dai Balcani occidentali all'Africa orientale: sembrava che la giustizia sarebbe stata distribuita in modo più equo.

Ma è successo qualcosa di diverso. Invece di far entrare altri nella storia dei diritti umani, l'intera storia è crollata. Una situazione in cui alcune vittime ricevevano più attenzione di altre è stata sostituita da una situazione in cui nessuna vittima riceveva un'attenzione prolungata. Gli orrori della Seconda guerra mondiale avevano costretto il mondo ad adottare la Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite, almeno in linea di principio, e le catastrofi post-Guerra fredda a Srebrenica e in Ruanda avevano incoraggiato gli interventi umanitari e creato uno slancio verso la "responsabilità  di proteggere".

Nei precedenti crimini contro l'umanità, l'ignoranza era sempre una scusa. Da Auschwitz a Srebrenica fino al Ruanda, i leader potevano affermare di non essere a conoscenza dei fatti, che i fatti erano equivoci o che gli eventi erano avvenuti troppo rapidamente per poter agire; ora abbiamo informazioni immediate, che spesso ci danno accesso a prove abbondanti e istantanee. Eppure hanno meno significato che mai. Lo scenario dei crimini si presenta come un mosaico confuso di immagini frammentate.


Abbiamo più prove che in qualsiasi altro momento storico di crimini contro l’umanità: torture, attacchi chimici, bombardamenti, stupri, repressione e detenzioni arbitrarie, ma le prove faticano ad attirare l’attenzione, e ancora di più a produrre conseguenze


La situazione era diversa ai tempi della Guerra fredda. Allora sembrava esserci un collegamento tra l'arresto di un singolo dissidente sovietico e una più ampia lotta geopolitica, istituzionale, morale, culturale e storica. I mezzi d'informazione, i libri e i film dell'epoca raccontavano le storie di prigionieri politici e le violazioni dei diritti umani come parte di un racconto più ampio e articolato nella grande battaglia della libertà contro la dittatura, una battaglia per l'anima della storia. 

L'intero “racconto” rinviava all'opinione pubblica delle democrazie un'immagine migliore di sé stessa, faceva parte di un'identità: siamo dalla parte della libertà contro la tirannia. C'erano istituzioni che sostenevano questa narrazione e questa identità. I prigionieri politici si sentivano meno vulnerabili quando le informazioni sul loro arresto venivano annunciate dalla BBC o da Radio Free Europe, riprese da Amnesty International, annunciate alle Nazioni Unite, sollevate dai presidenti degli Stati Uniti nei vertici bilaterali con la leadership sovietica.

L’era dell’impunità

L'insieme di tutti questi elementi ha mantenuto viva l'attenzione. E quando venivano rivelati i peccati dell'Occidente, come il programma di omicidi e colpi di stato segreti della Guerra fredda commessi dalla Cia negli anni Settanta, significava che esisteva un quadro attraverso il quale catturare l'attenzione e l'indignazione dell'opinione pubblica occidentale.

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