Il complotto federalista

Pubblicato il 8 Giugno 2012

Nelle ultime settimane il fiasco della formula bailout+austerity adottata finora per curare la crisi dell’euro sta facendo emergere una consapevolezza sempre più diffusa: l’unico modo di tenere in piedi un’unione monetaria zoppa è dotarla delle gambe che mancano - anche a causa dei rifiuti degli elettori, come la bocciatura della costituzione europea nei referendum del 2005 in Francia e Paesi Bassi - ovvero l’unione fiscale e quella bancaria. Per governare una simile struttura sarebbe poi inevitabile procedere a una forma più o meno compiuta di unione politica. I leggendari Stati Uniti d’Europa diverrebbero così una realtà.

Parallelamente a questa nuova narrativa hanno cominciato a circolare teorie del complotto che suonano più o meno così: se per compiere il passo decisivo di un processo che si trascina da oltre sessant’anni era necessario che il rigore e la paura di un collasso della maggior parte delle economie continentali fiaccassero le resistenze degli elettorati nazionali, è possibile che le elite europee abbiano consapevolmente “gestito la crisi” dell’eurozona, lasciando che precipitasse per quasi quattro anni prima di passare a raccogliere i frutti del panico in base alla legge Tina - There is no alternative?

Lo storico britannico Niall Ferguson è convinto di sì: “Credo che gli architetti dell’unione monetaria sapessero già che il loro modello [imperfetto e privo di clausole di uscita] avrebbe portato a una crisi, e che la crisi avrebbe portato a una soluzione federalista”, ha dichiarato in una recente intervista. “Non si sarebbe potuto ottenere il federalismo con altri mezzi.”

La teoria dello “shock necessario” è un grande classico della controcultura, dai sospetti sull’attacco di Pearl Harbor a quelli sull’11 settembre, ed è stata oggetto di best seller come Shock Economy di Naomi Klein, ma può avvalersi anche di un sostenitore autorevole e insospettabile come Jean Monnet. Negli anni cinquanta, di fronte ai tormentati esordi del processo di costruzione europea, il suo padre più venerato aveva formulato un noto aforisma: “La gente accetta il cambiamento solo quando è di fronte alla necessità, e riconosce la necessità solo quando una crisi incombe”. Monnet era il capostipite dei tecnici europei, e la sua utopia amministrativa avrebbe presto dovuto fare i conti con i limiti imposti dalla politica. Adesso che l’ora dei tecnici è suonata di nuovo, però, potrebbe avere la sua rivincita.

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Soltanto le prossime generazioni di storici saranno in grado di stabilire se in queste teorie c’è qualcosa di vero. Ma anche ammettendo l’esistenza di un simile disegno, i suoi ideatori dovrebbero ancora superare lo scoglio più insidioso: la resistenza dei tedeschi, finora relativamente immuni alle sofferenze del resto dell’eurozona. E’ possibile che se la crisi dovesse aggravarsi fino al punto di minacciare anche la più solida economia del continente, le difese erette attorno ai loro beneamati risparmi si ammorbidirebbero abbastanza da poterli convincere a buttar giù il rospo della transfer union. Ma in quel caso nei neonati Stati Uniti d’Europa ci sarebbe ben poco da festeggiare.

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