In una tazza di caffè c'è ben più che una pausa e uno stimolo. La sua nerezza racchiude un sentimento ristoratore, ma anche il momento che segna l’inizio di una giornata, la fine di un pranzo o lo scorrere delle ore morte. La voglia di aprire la mente a nuove percezioni, di riprendersi dallo stordimento o di riprendersi dalle sregolatezze.
“Possiamo vederci per un caffè” è ancora oggi una buona formula per esprimere il desiderio di un incontro che prevede confidenze e vicinanza – in una parola, socievolezza. “Un caffettino”, diciamo, con un minuscolo barlume di tenerezza. L’importante è pronunciare questa parola magica che dà senso a un appuntamento e rimanda alla cultura della conversazione. Dal suo ingresso alla corte di Luigi XVI fino al primo caffè fiorentino aperto al pubblico, la bevanda entrò nelle sale con gli specchi e i tavoli di marmo che divennero, con la rivoluzione francese, uno spazio per filosofeggiare e conversare di politica e letteratura. Erano luoghi in cui si preparavano cospirazioni, ci si innamorava, si scriveva e si facevano denunce, si scambiavano idee e si meditava in solitudine. Lo racconta bene Antoni Martí Monterde nella sua Poetica del caffè”: “La sua presenza mutevole nelle conversazioni, nei soliloqui e nei silenzi fa parte della modernità come modulazioni di una voce”.
In una conferenza tenuta ad Amsterdam cinque anni fa, intitolata “Un’idea d’Europa”, George Steiner fece un’affermazione apparentemente frivola: “Fino a quando ci saranno i caffè, l’idea di Europa avrà un contenuto”. Di fronte alla forte astensione e all’autismo elettorale di queste ultime elezioni – ha votato il 43,1 per cento, il che significa che il 56,9 per cento si è astenuto, superando il minimo storico del 2004 – mi domando cosa sia accaduto al grande caffè d’Europa. Dal noisette di Les Deux Magots al macchiato del Pedrocchi di Padova o al melangé viennese accompagnato dai buchteln del Hawelka, il caffè è stato la grande agorà del pensiero e della vita mondana del vecchio continente. La storia europea è piena di caffè ottocenteschi modernisti che accolsero le avanguardie: il Florian di Venezia, in cui Giacomo Casanova seduceva le sue amanti e Proust si riposava; il tavolo del Flore, su cui Sartre scriveva i suoi trattati sull’esistenzialismo, o l’Antico Caffè Greco di Roma – considerato l’ombelico del mondo – che illuminò lord Byron, Schopenhauer, Wagner, Henry James o Leopardi, oltre agli spagnoli Fortuny o Rosales.
Oggi però i caffè non sono più un club dello spirito e i camerieri non portano più il papillon; solo da Starbucks ti chiamano per nome, ma in modo impostato. La gente parla più nelle palestre, sugli aerei e dal parrucchiere che al bar. L’Europa, sempre più disamorata di sé stessa, è piena di spazi antisociali ed è sferzata da venti pragmatici e sbrigativi. La socialità si è spostata su internet, di fronte all’igienica solitudine dello schermo. Senza volute di fumo o poesie scritte sui tovaglioli, con celebri caffetterie come il Canaletes o lo Zurich sepolte dal mattone, l’Europa degli outlet, dei venditori ambulanti e degli internet cafè ha scelto la sicurezza a danno dell’esperienza. Eppure, tra robuste colonne e caffè crème, nel vecchio continente rinascono i verdi. E dalle ceneri del tanto denigrato maggio '68, Danny il rosso – secondo Libération l’unico che ha parlato di Europa invece di scadere nel solito localismo – rispolvera la vecchia utopia decaffeinata.